giovedì 7 dicembre 2023

Città come persone

Tratto le città come fossero persone. Cerco di capire se posso instaurarvi un rapporto, mi addentro nelle loro contraddizioni, seguendo il flusso naturale degli eventi, senza forzature, per capire se possano diventare il mio porto sicuro quando sento di volerle bene sul serio. Città che diventano quegli amici che puoi chiamare alle quattro di notte perché hai perso le chiavi di casa che poi ritrovi il giorno dopo nella tasca del cappotto, quelli cui raccontare senza reticenze tutte le tue miserie, o quelle persone con cui non si va oltre una chiacchierata leggera sorseggiando un calice di vino. Città come quei colpi di fulmine che durano quanto un gatto in autostrada, come l’amore della vita che s’incontra una volta sola - dicono in una notte d’estate - o come amanti che rivelano di colpo la loro indole tossica. Città che sono una sola cosa o che pian piano divengono anche tutte le altre, nel bene e nel male. A volte ci vuole tempo per scoprire, scoprirsi. Al contempo, vivo spesso le persone come fossero città, anche quando appaiono ostili come dei labirinti da cui si fa fatica ad uscire, sfuggenti, silenziose, a tratti invisibili.

Mi piace conoscere le loro storie fatte di viuzze che sbucano su piazze gremite e di stradoni illuminati da lampioni che creano ombre sui marciapiedi. I loro vicoli ciechi, le panchine poche illuminate, le strade sterrate che si teme di percorrere, i quartieri residenziali dove i bar restano aperti solo fino ad una certa ora, dove vanno a dormire anche i lampioni. Mi piace entrare a contatto con l’intimità dei loro silenzi, sapere che musica ascoltano, che dieta seguono, che libro stanno leggendo, il loro film preferito.

Mi piace trattare le città come persone e viceversa perché è attraverso questo processo di identificazione che si impara ad amarle, o odiarle, o tutte e due le cose.

Mi piace perché è in questo modo che riesco ad abbracciare il cambiamento, raccogliendo boccioli o spazzando via le foglie ingiallite a seconda delle stagioni. Ad ascoltare il rumore delle onde che ti culla con nostalgia verso cose passate, finché un raggio di sole ti riscalda e ti viene voglia di nuotare, o una folata di vento che ti scompiglia i capelli e ti dice di andar via. Mi piace perché ti offre un tempo in cui si impara a dosare, per piacersi, per farci l’amore e imparare ad amarsi anche dopo aver scoperto l’uno i vicoli ciechi dell’altro, e poi te ne offre un altro, in cui si impara a cedere, poi a togliere, a lasciar cadere ogni idealizzazione come cristalli, a lasciar andare, pian piano, e talvolta ogni cosa.

Ho sempre creduto fosse un limite, quello di pensare che una città sia niente altro che le persone che incrociano il tuo cammino, a cui leghi ricordi, piacevoli e non, a cui agganci tutto quello che si è creato, o anche distrutto. E invece forse ho compreso che finché avrò il coraggio di farlo, riuscirò sempre a trarne dei benefici: quello di guardarsi alle spalle al solo scopo di riportare alla memoria il proprio punto di partenza, chi si era e chi si voleva diventare, e guardare avanti, senza rimorsi né rimpianti, con la consapevolezza che in fondo si è dato tutto. Quello di guardare non solo agli stivali sporchi di fango, ma il terreno su cui si è seminato, e all’occorrenza scegliere un percorso alternativo. Quello di utilizzarle come specchi in cui ritrovare il proprio riflesso, a volte invecchiato, altre riscoprendone tratti da bambino. E quello di aver imparato l’arte del restare, solo quando non ci arrechi dolore, nonostante certe maree, perché abbiamo imparato a galleggiare.

Ci sarà sempre una viuzza che porterà in un posto che non si è mai esplorato, si finirà in vicoli ciechi o in quartieri poco illuminati, e poi su strade dal selciato fangoso. L’importante, però, sarà sempre riconoscere la strada per tornare a casa.

Non so precisamente cosa sia questa casa. E non si tratta solo di luoghi, spesso sono persone. O ancora talvolta sono emozioni: la associo ad una mano calda che ti prende il volto, poi si posa sul petto e gradualmente, senza farti male, te lo apre per accarezzare il cuore, per far sì che ci si possa guardare dentro, per recuperare le proprie radici e ripulirle dal superfluo, da tutto ciò che sopra di esse era stato depositato, anche maldestramente, sino a seppellirle.

Per me è questo il sinonimo di casa: ritornare alle origini, a quelle radici che non hanno subito cambiamenti nella loro essenza, ma sono solo diventate più forti per reggere il peso, a quel posto che scegliamo di tenere dentro, la cui porta rimane sempre aperta, anche quando per lunghi periodi avevamo scelto di non suonare il campanello pensando di aver perso le chiavi. E invece poi ce le ritroviamo nella tasca del cappotto. Scrivere, per esempio, è uno di quei luoghi che mi piace chiamare casa.


sabato 12 febbraio 2022

Bisogna avere il coraggio di essere fragili

Ho lasciato che le mie piante ed i miei fiori appassissero.

L’ho fatto di nuovo, solo che questa volta ho deciso di prendermi del tempo prima di rimpiazzarle.

Le posiziono sempre in vari angoli della casa. Alcune su di un mobile accanto alla finestra, per far sí che l’aria fresca e qualche raggio di sole possa tenerle in vita. Le innaffio, non quotidianamente, ma quanto basta, affinché non si dimentichino di avere qualcuno che si prenda cura di loro. 

Oggi le guardavo appassire, e ho pensato che fosse troppo tardi per recuperarle. Non ne avevo voglia, senza avvertire alcun tipo di pentimento. 

E ho pensato anche a quanto tutto questo rappresentasse in pieno come mi sento.

Ho lasciato che le vicissitudini mi assorbissero al punto da pensare di non avere più tempo per me, per scrivere, per inventare, per fare, insomma, tutte quelle cose che mi hanno sempre fatto sentire viva. 

Ho lasciato che certe cose appassissero e ho avuto paura di gettarle via. 

Le ho posizionate altrove, sperando che nascondendole tra i mostri che ognuno si porta dentro, me compresa, si facessero compagnia senza fare troppo rumore, né esigere mai il palcoscenico. 

Ho continuato a prendermene cura, innaffiandole, forse più del dovuto, pensando sempre che a me spettasse questo ruolo di quella che c’è sempre, a qualunque costo, e per chiunque. Quella che davanti a qualcosa o qualcuno che ti svuota, accenna un sorriso di circostanza e va avanti, immaginando che quel vuoto possa colmarsi da solo, o magari, sia solo frutto di decisioni sbagliate, di castelli di sabbia destinati a sgretolarsi, di pensieri che non poggiano su convinzioni reali. 

Ho sempre creduto che fossero le mie piante ad avere bisogno di me.

Mi affannavo pur di non lasciarle morire, per quel senso di responsabilità che mi cucio addosso ogni volta, facendo sí che mi caschi a pennello.

Poi ho letto da qualche parte che bisogna avere il coraggio di essere fragili. 

Mi sono chiesta cosa significasse e se stessi mostrando, a me stessa, di averlo questo coraggio.

Ho pensato che il modo migliore che avessi per dimostrarlo, a me stessa, fosse mettere tutto nero su bianco e lasciarmi andare, come l’acqua che scorre e che anche di fronte ad un ostacolo trova sempre una via alternativa per non arrestare il suo flusso.

Ho scritto meno perché scrivere per me ha sempre significato dare forma alle proprie fragilità.

Dar loro un volto dai tratti angelici, a volte spigolosi. Disegnarne i corpi, associarle ad un profumo, ad una canzone come fosse una preghiera che la mente, da sola, non smette di recitare. Dar loro un nome, come fosse un’etichetta per riconoscerle tra tante.

“Bisogna avere il coraggio di essere fragili,” – l’ho letto e riletto mille volte.

“E non fa niente se diamo a tanti l’illusione del bersaglio facile, se mostriamo quella crepa che gli altri possono allargare,” – il testo continuava. 

Così, tra una pausa e l’altra, ho capito che io questo coraggio ce l’ho, l’ho sempre avuto, non l’ho mai nascosto. Tutto quello che ho fatto è stato semplicemente adattarmi ad un ambiente in cui mostrarsi fragili equivale all’essere deboli, farsi trovare in affanno significa disordine, mostrare una crepa significa diventare un bersaglio facile. 

Invece io ho proprio bisogno di sentirmi fragile.

Di entrare in contatto con tutte le mie debolezze, prenderle per mano e andarci a fare una passeggiata. 

Ho bisogno di mostrare le crepe, tutte quelle che ho, perché me le sono conquistate e mi permettono di essere quella che sono. 

Le crepe sono storie da raccontare, con un finale ancora da scrivere, o a cui si è già messo un punto. Sono un apostrofo, tra una consonante e una vocale, che unisce tasselli che non avrebbero trovato altro modo per proseguire. Mi piacciono per quella loro innata propensione ad unire e lasciare, allo stesso tempo, la libertà di decidere se fare un salto nel vuoto, o salire sul ponte. Mi piacciono perché sono libere, autentiche, senza menzogne, né ambiguità. 

Ho sempre provato una sorta di reticenza nel farmi trovare in disordine, in debito d’ossigeno, in fuorigioco, in ritardo rispetto certi ritmi, lontana dalla gente, dai miei porti sicuri, persa.

La stessa reticenza l’ho trasmessa alle mie piante. Non mi sono mai arresa. 

Però oggi osservarle mi ha fatto capire di quanto fossi io ad avere bisogno di vederle appassire per capire che per quanto la fatica non ci lasci dormire, bisogna accettare che certi ambienti non sono fatti per lasciarci sbocciare. Bisogna comprendere che non tutto ció che accade è a noi destinato, ma che talvolta si tratti di ponti che ci aiutano a traghettarci al versante opposto da quello in cui ci troviamo. 

Comprerò nuove piante, ma questa volta diverse.

Mi prenderò del tempo, per prendermi cura delle mie crepe, non solo di quelle degli altri.

Mi prenderò del tempo per capire a chi destinarle, perché gli unici destinatari meritevoli sono quelli che a vederle non avvertono alcun disagio. Sono quelli che ti prendono per mano, e insieme alle tue crepe, ti portano a vedere il mare. Sono quelli che in questo coraggio vedono forza. Quelli che se sei in affanno, rallentano, insieme a te. Quelli che se sei in disordine, ti invitano a sederti perché a mettere un po’ di ordine ci pensano loro. Quelli per cui non sarai mai un bersaglio facile, ma una conquista inaspettata, perché in quegli occhi si rivedono più umani. 

Tutto il resto non conta. Sono piante destinate ad appassire.

Non c’è bisogno di alcun cenno di pentimento.

Lo sapevano già anche loro. Non le avresti mai salvate da loro stesse.

Possiamo salvare solo noi stessi, ma ci vuole coraggio. Quello di essere fragili. 


martedì 9 novembre 2021

Alle 8:40


Alle 8:40, dal lunedì al venerdì, prendo la mia consueta corsa in metro, sempre di fretta. Fino a poco tempo fa, avevo imparato ad anticiparmi ma lo sapevo già che non sarebbe durata, la calma non è mai stata il mio forte.

L'altro giorno però sono riuscita a perdere anche quella che chiamo "la-corsa-di-emergenza", l'ultima fattibile, quella che parte alle 8:45 e mi porta a destinazione in poco meno di 9 minuti, così da riuscire a cronometrare il passo e arrivare ad aprire la porta dell'ufficio alle 8:59 - con l'acido lattico che fa ancora su e giù all'altezza delle cosce. Dall'uscio di casa a quello dell'ufficio, trascorrono trenta minuti, in cui ciascuno è pianificato con una cura quasi maniacale. In cui qualsiasi intoppo, è gestibile - mi dico - ma meglio che non accada - mi ripeto. È forse l'unico momento della giornata in cui riesco a pianificare qualcosa. 

L'altro giorno, però, non ce l'ho fatta. Mentre scendevo di corsa le scale, sono stata quasi inghiottita da un'orda di persone che in direzione opposta alla mia, non accennavano a scansarsi nemmeno di qualche centimetro. Quelli saranno stati momenti preziosi anche per loro.

Solo che ogni volta, penso sempre di riuscire a destreggiarmi. Trovo un piccolo spazio e mi ci infilo. Li scanso, senza nemmeno a volte sfiorarli, e riesco ad uscirne, tirando un sospiro di sollievo quando le porte scorrevoli si chiudono alle mie spalle, perché arriverò nei tempi giusti. 

Pochi giorni fa, invece, mi sono sentita quasi bloccata nello scegliere da parte andare. Ho fatto fatica a schiacciarmi tra la folla, come se stessi remando in direzione opposta alle onde. Ho decelerato. Ho seguito il ritmo che sentivo, e sono arrivata tardi. Capita. Questa volta però non mi sono sentita in colpa, e mi sono detta che, in fondo, non sono mai stata una pianificatrice esemplare, però potrei imparare a diventarlo a modo mio.

Così mi sono resa conto che quelli che chiamo intoppi, sono la parte più divertente del piano. Perché ti insegnano a trovare soluzioni e a gestire cose o persone che come schegge impazzite occupano uno spazio che avevi considerato fosse libero, ma che invece si trasforma in un ingorgo. Mi sono resa conto di essere piccola quanto basta per destreggiarmi con cura tra la folla, ma anche grande, abbastanza, da prendere quelli che considero i miei tempi e i miei spazi. Il che significa fermarsi, aspettare, decelerare. Ho capito che nessuna corsa ti farà mai arrivare nei tempi giusti, perché sono giusti quelli che senti. Non un minuto prima, né uno successivo. E che spetta a noi decidere quale sia l'ultima corsa. Ne seguirà sempre una, poi un'altra, ed un'altra ancora, su cui poter salire ascoltando i nostri bisogni prima della voce che dall'altoparlante ne annuncia il transito. Con il nostro passo, seguendo i nostri ritmi.
E va bene se le cose saranno diverse da come le avevamo pianificate.
Domani possiamo riprovarci.

Chiudi gli occhi, mia cara, e non aver paura. Andrà tutto bene.


lunedì 21 dicembre 2020

Spezzare

Una persona che stimo, perché sempre sfacciatamente sincera pur mantenendo una postura elegante e garbo nei modi, mi ha detto una volta che spezzare di tanto in tanto fa bene.
Equivale al farsi sentire, a selezionare solo ciò che ci fa sentire appagati, al volersi bene, a non aver timore della solitudine, perché in fondo conservare rami già spezzati non sortirebbe alcun effetto benefico, allora meglio disfarsene. 
Poi, quasi come fosse un rimprovero materno, mi ha chiesto cosa mi porti a non riuscire a spezzare, rompere, tagliare, anche quando qualcun altro ridurrebbe il tutto ad una poltiglia senza forma.
Capire se sia possibile ricucire lo strappo, risanare la ferita, riordinare, rimettere a posto le cose, le ho risposto. 
Concedere seconde possibilità, a me stessa di accogliere nonostante tutto, agli altri di riprovarci, ho pensato senza fiatare.

Sino ad allora se qualcuno vi avesse chiesto di spezzare qualcosa, avrei pensato ad una tavoletta di cioccolato su cui affondare i denti mentre mi convinco che sia un'altra di quelle serate nostalgiche e quindi di meritare qualche coccola in più.

Non ho mai dubitato che questo modo di rimettere insieme le cose, anche quando sarebbe più semplice gettarle tutte al vento, mi togliesse qualcosa. Molte volte mi ha arricchito. 
Tuttavia, solo dopo ho compreso cosa intendesse con il termine spezzare.
Comportarsi non come animali feroci, che schivano con brutalità possibili avversari in vista di una preda da azzannare, ma come esseri umani premurosi, che per amor proprio decidono quando sia opportuno adottare le dovute distanze e con la stessa compostezza quando sia necessario assottigliarle, solo quando ne valga veramente la pena. O il contrario: allungare le distanze quando certe presenze appaiano ingombranti, deleterie, rumorose, come quelle che sovrastano la nostra voce o la accantonano, quelle che non apportano alcun contributo positivo e che nonostante appaiano lì in realtà non ci sono, perché sono come luci di un interruttore danneggiato che a poco a poco ci spengono. 

Così ho capito che il termine spezzare può avere una serie di accezioni positive.
Significa prendere parola, posto, spazio, ciò di cui si ha bisogno.
Significa innaffiare nuovi semi per far crescere nuovi germogli.
Significa sbarazzarsi del superfluo, di ciò che è rotto e non può più essere riparato.
Significa ripulire, piantare, fiorire, amare e amarsi, ogni giorno con la stessa costanza.
Significa non aver paura di ferire perché si concede alla nostra voce la giusta importanza.
Significa non temere di restare soli, perché non lo saremo mai solo quando selezioneremo con cura il terreno da innaffiare. In tutti gli altri casi, lo saremo già stati pur non accorgendocene. 
Non significa che cresceranno nuove rose lì dove sono appassite, ma equivale a provarci.

Mi piace la parola spezzare, perché sembra racchiudi un suono assordante e invece poi tanto rumore non fa. È lieve, come un petalo che cade da una margherita, ma deciso, come gocce di pioggia sui vetri.
Mi piace perché lascia presagire qualcosa di violento e inaspettato, come un temporale estivo, e invece poi nel suo corso si calma, lasciando spazio a tutto quello che altrimenti non avremmo mai visto.
Mi piace perché è in grado di essere brutale nella forma, ma dolce nella sostanza.
Mi piace perché significa, in fondo, prendersi cura di se stessi.
Per questo alla fine l'ho promesso, che di tanto in tanto avrei spezzato, il che non significa distruggere o chiudere porte in faccia, al contrario equivale a mettere a posto le cose, lì dove sarebbero dovute restare sin dal principio.
È questo il mio proposito per il nuovo anno: trovare il coraggio di spezzare e la costanza di ricostruire ogni volta. E che non sia solo cioccolato.


sabato 14 novembre 2020

Gettarsi nel mondo

Ci sono delle date che ho scelto di cucirmi addosso, altre che di tanto in tanto chiedono solo di essere ricordate. Alcune bussano alla mia porta con fare delicato, altre con pugni decisi e costanti. A volte alcune somigliano al trillo di un campanello, altre ancora al suono sordo e distante di una campana di una chiesa in un piccolo paesino nascosto tra le montagne. Tutte, o quasi, hanno a che fare con una partenza. Che questa sia verso una destinazione in concreto o figurata, è sempre paragonabile ad un tuffo da un trampolino senza prendere alcuna rincorsa, un’immersione subacquea senza attrezzature complicate, una lunga passeggiata in infradito. Mi ricordano come fosse gettarsi nel mondo, sempre col mio solito fare goffo, a volte frenetico, ma che mi permetteva di assaporare ogni cosa, di annusare i profumi e le puzze nauseabonde, di toccare il fondo per poi risalire.

Ed è con questo spirito che tutte le volte mi sono tuffata: senza prendere precauzioni né misure, senza mai porre distanze. Provavo quasi un senso di inadeguatezza nel farlo. Conoscevo un solo modo di cadere e soltanto uno per rialzarmi. L’improvvisa caduta su una strada appena asfaltata era necessaria per tagliare il traguardo. 

Tuttavia, oggi, riguardando vecchie fotografie a cui inevitabilmente si associano date e quindi ricordi, mi sono accorta che il mio modo di gettarmi nel mondo non è mai cambiato, ma solo quello in cui ne sono uscita ogni volta. Ho sempre continuato a non prendere rincorse prima di tuffarmi da un trampolino, a non portare con me bombole a sufficienza per un’immersione subacquea e nemmeno delle calzature adeguate per passeggiare a lungo. Credo lo abbia fatto sempre di proposito, perché forse sapevo che ce l’avrei fatta comunque. Via via però si è trasformata l’uscita, come fosse una porta d’emergenza la cui insegna continuava a lampeggiare insistentemente, di un colore rosso che via via si faceva sempre più acceso solo perché la porta diventava ogni volta più vicina e più grande. Avevo maggior resistenza a nuotare sott’acqua, a godere delle bellezze marine così come della vista di un paesaggio ad alta quota. Ognuna di queste azioni, pian piano, è durata sempre meno. E talvolta le porte d’emergenza le ho costruite io stessa. 

Oggi ho pensato a tutte quelle porte d’emergenza che avrei potuto evitare di aprire, ma per la prima volta anche a tutti quei tuffi che avrei potuto non fare. E la verità mi ha stupito: mi sono risparmiata parecchi salti solo quando qualcuno con prepotenza mi implorava di non farlo, sono uscita non per insufficienza di attrezzature ma perché trovavo già la porta aperta e mi ci infilavo.

È forse per questo che adesso mi sento a metà, come se in questo mondo, che oggi ha mutato in abitudini e fattezze, non riuscissi a gettarmi per il timore di non poter risalire. Quelle volte che ci ho provato, ho portato con me tutte le precauzioni, anche quelle non indispensabili. Sono riemersa in superficie per tutta quella pesantezza che mi portavo addosso, ma mai per volontà.

Però forse le date che realmente meritano di essere incise sui nostri corpi, affinché le si possa tenere a mente come fossero una routine giornaliera, sono quelle in cui abbiamo scelto di fregarcene. Della ricorsa prima di un tuffo, di portare con noi bombole d’ossigeno a sufficienza prima di un’immersione o scarpe più comode per una lunga passeggiata, come di quanto fosse fastidioso il lampeggiare insistente dell’insegna al neon della porta d’emergenza progettata proprio per svignarcela. Di qualsiasi cosa o persona ci impedisca di tuffarci o ci apra la porta bruscamente. Sono queste le date importanti, perché ci insegnano che dobbiamo essere noi a scegliere quando gettarci così come risalire. Che non possiamo mai recriminarci di non aver preso misure e distanze, perché l’unico modo di conoscere è spremere la vita fino all’ultimo. Che non possiamo recriminarci nemmeno di non avere seguito tutte le precauzioni necessarie, perché dovremmo pensare a sganciarcene strada facendo. Sono queste le date importanti perché ci ricordano di cosa siamo capaci. E la misura di ogni uomo o donna su questa Terra è sempre la stessa: quanto amore siamo disposti a donare, in ogni forma, a noi stessi, agli altri, a questa vita. 

Per questo è importante fregarsene, come fosse una sfida con il mondo il cui unico modo per vincerla è non aver paura di non avere o essere abbastanza. La vita mette e toglie quando occorre, non quando faccia più o meno male, sta a noi decidere di non smettere mai.


martedì 6 ottobre 2020

Come un telo da mare

Con l’arrivo dell’autunno ho messo via un po’ di cose. Ho lavato in lavatrice il telo da mare, l’ho piegato e conservato al suo solito posto. Lo riprenderò il prossimo anno, quando correndo a piedi nudi sulla sabbia in pantaloncini e canotta sarò pronta per lasciarmi dondolare dalle onde del mare e riscaldare dai raggi di sole, ancora una volta.

Ogni cosa gode dei suoi tempi.

Sa già dove e quando deve essere conservata.

Come tante altre, sanno già che prima o poi dovranno essere gettate via.

Non sono brava a disfarmi delle cose, mi ripeto spesso che molte potrebbero tornarmi utili, prima o poi. Ma questa volta ho deciso di conservare solo il telo da mare e tutto quello che gli rassomiglia, ovvero tutto ciò che basta semplicemente scuotere dopo l’utilizzo per rimuovere ogni granello di sabbia che potrebbe appiccicarsi alla schiena la volta dopo.

Ho pensato di conservare cose così, quelle che richiedono cura ed energia, ma mai in eccesso, rispettando i miei spazi ed i miei tempi. 

Ho deciso di fare lo stesso con le persone, tenendo per mano solo chi, con uno sguardo attento e mai una parola di troppo, ha la capacità di trasformare la pioggia battente in arcobaleno, una brutta giornata in un’altra più serena, un terreno arido in uno in cui si possa concimare ed aspettare la bella stagione per la raccolta.

Seguendo questo principio, sono tante le cose da gettar via, più di quelle che immaginassi.

Come le pillole per dormire che adesso non mi servono più, perché ho imparato a respirare lentamente, a non correre, a non aspettarmi nulla da un futuro di per sé incerto, ma a fare un passo alla volta e a seminare, con pazienza, ciò che un giorno mi piacerebbe raccogliere, senza ansia da prestazione.

Ho fatto lo stesso con qualche ricordo diventato troppo ingombrante.

Anniversari che al solo pensiero ti fanno star male.

Fogli di carta su cui un tempo scrivevi delle cose che basta rileggere per capire che adesso sei cambiata rispetto a qualche tempo fa.

Con le persone ho deciso di fare più o meno lo stesso.

Ho scelto di allontanare quelle che non sanno respirare lentamente prima di rivolgerti parola.

Quelle che aspettano già al traguardo, ma a correre o passeggiare insieme a me non ci hanno mai minimamente pensato. 

Quelle che non sono in grado di prendersi cura del proprio terreno e quindi nemmeno dell’altro, perché da quella terra non spunterà alcun bocciolo. 

Quelli ingombranti, che ti rendono la vita un luna park senza alcun divertimento ma solo capriole e luci al neon che dopo un po’ ti danno la nausea.

Quelli che non lasciano che tu cresca, mettendo in luce la parte migliore di te, ma solo quella che non vorresti mai essere.

Mi piacciono le cose come le persone che come un telo da mare porti con te al braccio fino alla spiaggia, e che pur sgualcendosi nel corso della giornata, saranno sempre quelle di cui non potrai fare a meno.

Quelle a cui basterà una scossa o una folata di vento per ripulirle.

Quelle che ti ricordano il mare e lasciano che tu sia esattamente come lui, infinito.

Mi preparo ad un autunno diverso rispetto a quello dello scorso anno, fatto di alberi spogli da rivestire e foglie secche tutte da colorare, di volti opachi da allontanare, di esperienze da imballare in scatoloni che non dovranno essere più riaperti, di anime spente cui comunicare che il tuo lavoro è terminato per poterti prendere cura di te stessa e della tua luce che non dovrà spegnersi mai, a qualsiasi condizione.

Così mi godrò l’autunno senza aspettare l’inverno e l’inverno senza aspettare il profumo dei fiori freschi di primavera. E godrò questi ultimi senza fremere per l’arrivo di una nuova estate.

Ho già soltanto una certezza sino ad allora: che con le infradito malconce, in pantaloncini e canottiera, correrò sino a raggiungere il bagnasciuga. Una volta lì, scuoterò il telo e mi metterò a respirare, lentamente, come sto imparando a fare.

sabato 4 aprile 2020

Racconto breve: Scarpe strette

Atterrai a Dublino nel tardo pomeriggio di una domenica di fine estate. Mi affrettai per andare a recuperare il bagaglio e mi misi in coda per l’autobus, che in poco più di tre ore mi avrebbe condotto a Cork, una piccola cittadina al Sud dell’Irlanda. Il cielo era di un grigio cadetto e la pioggia così sottile da non bagnare nemmeno l’asfalto.  Occupai uno dei primi sedili, accanto ad una donna dalla corporatura robusta che si rannicchiò sul suo fianco destro per tutta la durata del viaggio, costringendomi a appoggiare la testa sul vetro del finestrino alla mia sinistra. 

Ho sempre amato la pioggia, il suo profumo e quell’inconsueta quiete che ne sussegue. Sin da bambina mi piaceva guardare come scorrevano velocemente gli schizzi di pioggia sui vetri delle finestre, immaginando fossero degli spermatozoi che passavano da una parte all’altra del fermavetro. Di questa mia fervida fantasia non ne avevo mai parlato a nessuno. Avrebbero pensato tutti che fosse una delle mie tante stranezze, anche se poi quell’etichetta me la cucirono addosso quasi tutti anche senza sapere delle mie bizzarre fantasie, quando una volta conseguito il diploma decisi di dare un taglio a quella che sino ad allora era stata la mia vita.

“Allora non ti iscrivi all’università?” mi chiedeva insistentemente Daniela, la mia storica compagna di banco delle superiori, a cui ho sempre passato tutti i compiti di inglese e matematica, le uniche due materie in cui ero sempre stata molto più ferrata degli altri.
“No, preferisco fare quest’esperienza all’estero. Magari apprendo l’inglese sul serio, mi trovo un lavoro. Preferisco guadagnare qualcosa”.
Era questa la risposta che avevo dato a tutti, pur percependo in ogni sguardo in cui mi imbattevo un velo di incredulità. Preferivo non farci caso, in fondo non avevo altra scelta.

Non sono cresciuta in una famiglia abbiente. Quando avevo dodici anni la gelateria che aveva preso in gestione mio padre fallì, così mia madre si ritrovò con uno stipendio da segretaria di poco più di mille euro al mese a prendersi cura di me, mio fratello e mia sorella, e a curare la depressione di mio padre.
“Però pigli troppi caffè e fumi assai Stefano”, mia madre rivolgendosi a mio padre.
“E c’aggia fa’ Rosà?”
“Vai a dare un poco d’acqua alle piante e porta fuori i cani”.

All’inizio pensavo che mia madre lo sgridasse. Forse, per non essersi preso cura abbastanza della sua famiglia. Poi capii che quello che sembrava fosse un ordine era l’unico modo che conosceva per spronarlo a non lasciarsi andare. Capii che spesso mia madre utilizzava quei modi bruschi per insegnare a me e ai miei fratelli ad essere responsabili. Intanto lei aveva imparato a gestire l’imbarazzo magistralmente. Come quando mia zia veniva a portarci la spesa e buste piene di vestiti che le mie cugine non indossavano più.

“Marì e mò tutta sta roba dove la metto?” mia madre, rivolgendosi a mia zia con tono di rimprovero.

“E te li conservi per quando cresce”.

“Vieni qua Claudia, misura qualcosa”.

Anche se le scarpe mi stavano strette o le maglie troppo larghe, mia madre era sempre in grado di trovare una soluzione.

“Questo vestito ti sta bene Claudia, poi mamma te lo stringe un poco.”

“Guarda qua pure sta felpa, quest’anno ti rimbocchi le maniche, per l’anno prossimo ti andrà giusta”.

Quando anche mia madre venne licenziata qualche anno più tardi, capii che avrei dovuto mettere in pratica tutto quello che mi aveva insegnato e che sarei stata io stavolta a trovare una soluzione.

Comunicai ai miei l’intenzione di andar via per un po’. Acquistare un biglietto di sola andata rappresentava un’arma a doppio taglio dietro cui si celava un po’ di sano egoismo che mi avrebbe consentito di riaproppriarmi di quello che mi era sempre mancato e conquistare la mia indipendenza, così come un innato altruismo nei confronti dei miei genitori per ripagarli di tutti i loro sacrifici.

“Ma tu si piccerell, arò vaje?” mi disse mia madre.

“Mà ho diciannove anni. Mi trovo un lavoro, là pagano bene, vi mando qualcosa”.

“No figlia mia. Lascia stare”.

“Rosà, lassà sta tu. Se vuole andare, va buon accussì”, la interruppe mio padre, il quale sembrò non batter ciglio di fronte alla mia decisione.

Così mia madre mi aiutò a preparare le valigie, lasciando spazio in ogni angolo per qualche pacco di pasta e di caffé.

“Portati pure questo piumone.”

“Mà dove lo metto? Non c’è spazio. Poi me lo compro, non ti preoccupare”.

“Claudia là fa freddo. Te lo faccio entrare io, aspetta”.

In un modo o nell’altro, mia madre trovava sempre una soluzione. Così riuscii a portare con me anche il piumone.

“E mò quando torni?” mi chiese prima di salutarmi in aeroporto.

“Mà non lo so”.
Girai le spalle senza voltarmi. Non volevo vederla piangere. L’ho sempre fatto, tutte le volte che tornavo, perché col tempo ho capito che forse una madre non si abitua mai a vedere andar via un proprio figlio.

Venni assunta da Amazon e riuscii a mettere un bel po’ di soldi da parte, oltre ad inviare ogni mese una cospicua somma ai miei, il che mi fece credere per un bel po’ che avessi finalmente costruito una vita, la mia, degna di essere vissuta. Ogni cosa che profuma di libertà ha il suo prezzo da pagare, e credevo che quello fosse il mio: poco più di cinquecento euro al mese.

“Grazie Claudia, poi ti mando un pacco a fine mese”.

“No, mamma, non mi serve niente”.

“Come non ti serve niente? Non ti preoccupare, ho cominciato a pulire la casa della signora Carmela, quella che abita di fronte. Ha detto che ha altre signore da presentarmi”.

“Mi fa piacere”.

“Ascolta che ti serve?”

“Mà te l’ho detto, non mi serve niente”.

“Io ho due frullatori, uno te lo mando, può sempre servire. Poi ascolta, ti mando pure le tende così le metti nella tua stanza”.

“Le tende? Non ti preoccupare, non mi spedire niente”.

“Allora quando vieni te le porti in valigia. A proposito, quando torni?”

Le telefonate tra me e mia madre si concludevano sempre con la stessa domanda cui io davo quasi sempre la stessa risposta: “Presto mamma”, anche se talvolta voleva dire il prossimo mese, altre volte entro sei.

Prima di partire mi documentai su Cork, la città natia di un professore con cui avevo seguito un corso d’inglese ai tempi delle superiori. Decisi di trasferirmi in quella cittadina di poco più di 120.000 abitanti spinta dai suoi racconti sulla bellezza incontaminata dei suoi paesaggi. Poco dopo però mi resi conto che non aveva molto da offrire ai giovani della mia età, a parte lavori strapagati rispetto a quello cui ero abituata.

Durante quei tre anni in Irlanda mi sono fatta degli amici, ma mi sono anche abituata a vederli andar via. All’inizio cadevo in un profondo sconforto, poi col tempo ho imparato a lasciarli andare, mantenendo solo i ricordi. Nessuno voleva rimanere lì per sempre e man mano questa divenne una certezza anche per me.

Oggi sono su un altro autobus, quello che dall’aeroporto El Prat di Barcellona mi fermerà a Plaça Cataluñya, il punto di partenza da cui le mie scarpe, questa volta della mia misura, cominceranno a calpestare un asfalto diverso, come quello di viuzze strette che portano al mare. Come mi mancava, il mare. Non potrò di certo spedire ai miei conchiglie, pensai. Troverò un lavoretto e continuerò ad aiutarli, come potrò, la fortuna aiuta gli audaci, diceva sempre mia madre. Nel mio bagaglio avevo imparato a farci entrare tutto, proprio come faceva lei, compreso il piumone. Questa volta, però, i sensi di colpa li avevo lasciati dietro le spalle di quella ragazzina ingenua che indossava scarpe strette e che rimboccava le maniche alla felpa, perché tanto l’anno successivo le sarebbe calzata a pennello.

Quel tempo mi servii per apprendere una lezione che altrimenti mi sarebbe stata sconosciuta: che la libertà ha spesso il sapore di cose semplici ed il suono di quelle che avevamo rimosso dalla nostra mente, come il rumore delle onde del mare. Che quando pensavamo di possedere le chiavi per inseguire la nostra libertà, stavamo invece aprendo la porta di quella che sarebbe stata la nostra prigione. E che nessuno si salva da solo, ma chiunque ha il diritto di salvare dapprima se stesso.