giovedì 28 febbraio 2013

Pensieri nello zucchero.

Qualche giorno fa ero ad un tavolino di un bar. Non ero sola, c'erano anche i miei pensieri a farmi compagnia che ho tentato di zittire ma purtroppo hanno preso il lato peggiore di me: ognuno deve rigorosamente dire la propria. Così si accavallano le voci, non trasuda alcuna linea di pensiero ben definita, sollevando soltanto un gran clamore che si disperde tra i fumi di pagine di libri bruciati. Ho tentato anche di affogarli in un caffè con  poco zucchero che continuavo a girare con la sfrontata ostinazione di chi vorrebbe diluire quei pensieri insieme alla zolletta di zucchero, fin quando da quella tazzina ho sentito "Basta, non si sciolgono, è inutile, falla finita e bevimi!" 
Così l'ho sorseggiato fino a riporre la tazzina sul tavolo. In quel caffè avrei potuto versare anche una quantità industriale di zucchero, ma sarebbe stato sempre amaro lo stesso. Lo zucchero ed i pensieri sono un binomio errato, nella loro reazione chimica il pensiero vince sempre sullo zucchero, ci sono anni di studio alle spalle ma io come al solito ci ho provato lo stesso, pur fallendo. E mentre sperimentavo la pur fallimentare reazione chimica insistendo nel voler vedere la vittoria dello zucchero sui pensieri, comincio ad ascoltare le parole di un ragazzo e due ragazze al tavolino di fronte al mio. Quei discorsi che non vorresti ascoltare di proposito, nonostante l'orecchio li segua comunque involontariamente nella loro totale indifferenza. Il ragazzo appariva particolarmente agitato, gesticolava molto, mentre le sue amiche sembravano delle statue di cera, pronunciando di tanto in tanto delle frasi ovvie sul come doversi comportare o a limite ribadendo il suo concetto cambiando termini ed aggettivi, che non avrebbero di certo lenito il suo stato d'angoscia. Il problema che gettava quel carinissimo ragazzo sedutomi di fronte nello sconforto era una litigata con la sua fidanzata che gli aveva chiesto del tempo per pensare. Strano. Tante persone invocano tempo per pensare nello stesso istante in cui qualcun'altro si accontenterebbe che qualcuno inventasse uno zucchero in grado di superare la reazione chimica con i pensieri. Diceva che non era la prima volta che accadeva e che ora come ora era avvilito, come fosse preda di un tempo che non sarebbe riuscito a spezzare perchè nonostante la sua fugacità il suo amore ancora intatto non glielo avrebbe permesso. Allora non gli restava che aspettare non staccando mai le sue dita dal cellulare, come una preda cacciata e sbranata dal carnefice che non era lei, ma la sua pretesa di aver tempo. Tutto d'un tratto arriva un messaggio sul suo cellulare che gli illumina il viso con un sorriso che non riusciva a contenere ed un entusiasmo tale da leggere quel messaggio a voce alta. La ragazza si scusava per la sua reazione eccessiva dettata dal forte nervosismo e gli assicurava che non sarebbe più accaduto. Parole scritte in sequenza, da copione, sentite e risentite, ma che sono bastate per farlo sorridere e riaccendere un barlume di speranza. Basta così poco per legare due vite, così poco per scioglierne i nodi, ma ancora meno talvolta per riunirli. Allora mentre al tavolo di fronte il tempo, spesso mio invincibile nemico, era stato sconfitto, l'aver occupato la mente con discorsi che mi appartenevano pur non facendone parte, servì a sciogliere parte dei pensieri nello zucchero, non tutti, ma questo è servito per partorire una considerazione: l'amore può vincere il tempo, come dell'olio versato in un bicchiere d'acqua che resterà sempre in superficie; se è il tempo a vincere si tratterrà di un suo surrogato, qualcosa che si spaccia per amore perchè sembra avere la stessa etichetta, qualcosa di simile ma in fondo diverso.
Quel ragazzo lo stava insegnando ad una come me che dal tempo ne è uscita sempre a brandelli. 

mercoledì 27 febbraio 2013

Persone come strade.

Mi piacciono le persone che ti attraversano e nel farlo consentono a te di attraversare loro. Quelle che ti attraversano come fossi un'autostrada a gran velocità, decelerando solo per pagare il biglietto al casello per poi proseguire senza mai scalare la marcia. Come fossi una strada sterrata, dalla difficile percorribilità, a tratti fangosa o impervia, eppure l'unica alternativa possibile. Come fossi una strada larghissima o strettissima, che finisce per condurre ad un vicolo cieco o la sola a condurti a destinazione. Come fossi una stradina assolata di campagna di cui fatichi a vedere la fine, un sentiero all'ombra dei cipressi da attraversare lentamente a piedi o in bicicletta, mentre il tiepido venticello ti scompiglia i capelli e all'orizzonte il rosso si combina con il giallo e l' arancione di un Sole che sembra perdersi tra le colline lasciando spazio all'imbrunire, come fosse un dipinto su tela in cui la compenetrazione dei colori della tavolozza consacra un'unione simbolica ove è impossibile comprendere dove inizia una tinta e dove finisca l'altra.
Quelle persone che ti attraversano nonostante sembri una strada vietata, un sentiero nascosto il cui asfalto non era mai stato calpestato nemmeno da te, generando stupore. Mi piacciono le persone così, quelle che fanno di te una strada da percorrere in silenzio, una strada che avrai l'impressione di attraversare anche tu insieme a loro, tenendogli la mano. Quelle persone che ti vedranno come una strada da attraversare infinite volte senza mai stancarsi, conoscendone ogni angolo, in cui scorgere una fontana in cui di tanto in tanto dissetarsi, o una strada percorribile soltanto in un dato momento per poi uscirne mentre la loro sagoma si confonderà con l'orizzonte in una giornata di solleone. 
Mi piacciono quelle persone che nell'attraversarti lasciano una traccia del loro passaggio, un'orma sull'asfalto ancora fresco, che possa guidarti verso altre strade che dentro di te ci sono sempre state ma che avevi imparato ad ignorare, essendo l'un per l'altro in fondo un labirinto inesplorato in cui nascono i sogni, in cui avrai la sensazione di perderti ma persa non ti ci sentirai mai.

martedì 26 febbraio 2013

Sintesi? No, grazie. Preferisco una birra.

Forse proprio per la mia incapacità di sintesi, non amo particolarmente le definizioni attraverso aggettivi secchi, lapidari, identificatori ma mai totalmente, sempre in fondo a metà. 

La definizione sterilizza, minimizza, comprime, stigmatizza, conduce per forza ad una categoria piuttosto che ad un'altra. Ed io detesto stigmatizzare nella stessa misura in cui io soffra nel vedermi spesso stigmatizzata, ridotta, compressa come fossi un salume sotto vuoto. Nella cerchia delle definizioni si nasce, talvolta ci si perde, spesso si muore.  

In effetti non saprei nemmeno che definizioni attribuirmi. 
Non credo che le definizioni facciano per me, non sono una di quelle a cui chiedere una breve presentazione di se stessi, una che risponderebbe in maniera lapidaria pescando dalla cesta di quelle convenzionali qualità che sembrano in questi casi appartenere un po' a tutti
Ma se proprio dovessi riconoscermi qualcosa, direi probabilmente di essere una persona in grado di amare tanto che spesso diventa un troppo, in un tempo sempre troppo piccolo o troppo grande. Il troppo sarebbe un rafforzativo ma quello che poi definirebbe realisticamente il mio modo di amare. E non mi riferisco soltanto ad un amore nei confronti di un potenziale uomo. Amore per i dettagli, per i miei pensieri, per quell'idea di preservare la mia dignità che equivale ad accettarmi esattamente per quella che sono, per le passioni, i miei tentativi, amore per chi standoti accanto riesce a farti sorridere anche quando non ci sarebbe alcuna ragione per farlo, fin quando comprendi che in fondo non ci deve essere una ragione per sorridere, lo devi fare e basta, e se proprio la vuoi trovare avrà il nome di chi ti avrà procurato quella smorfia sul viso che in fondo ti dona. Amore per un film, un libro, un interesse, un posto. Amore nella sua accezione più ampia e totalitaria del termine.

Allora se mi chiedessero di attribuirmi una definizione io direi di essere "una che ama troppo"
Una che ama troppo per il suo fare scelte impulsive che potrebbero sembrare troppo grandi, esagerate, avventate, spesso incomprensibili per gli altri ma che lei non avvertirà mai come tali. Una in grado di pronunciare "mi manchi" ed in egual misura "ti vengo a prendere" anche se significherebbe percorrere chilometri o addirittura cambiare Stato. Una che probabilmente farebbe spazio ai vestiti dell'altro nel suo armadio senza mai pronunciare il termine "ingombrante", nonostante trovandosi nella circostanza opposta si sentirebbe forse costretta a lasciare i suoi indumenti in valigia. Una che nonostante la stanchezza aspetterebbe sveglia fin quando lui non ritorna soltanto per sentirsi dare la buonanotte. Una che forse andrebbe da un capo all'altro della città soltanto per domandare "Come stai?" senza pretendere che le sia rivolta la stessa domanda. Una che ogni mattina si prodiga nel fargli il nodo alla cravatta anche se ne potrebbe fare a meno insegnandoglielo, ma non lo farebbe lo stesso, perchè quella sembra essere la più tenera delle abitudini, come un luogo in cui ritrovarsi ancora una volta più vicini dopo aver abbandonato le lenzuola, un fare qualcosa per l'altro che potrebbe anche imparare ma che tu speri in fondo non impari mai per poter essere sempre la sua insegnante. Una che ama troppo e nella stessa misura si strazia. Una che vive nell'attesa e che resta nonostante lui magari non la stia aspettando, nè le abbia mai chiesto di restare. Una che per timore che lui scappi dalla finestra, gli aprirebbe probabilmente la porta principale per constatare almeno il momento esatto in cui abbia scelto di andare via, per avere almeno la possibilità di salutarlo con un viso imperturbabile che si trasformerà in uno corrugato dalle lacrime non appena chiuda la porta alle sue spalle.

Una che si innamora troppo anche delle sue idee prendendosene cura in egual maniera, non lasciando mai che nessuno gliele sporchi.

Una che quando ama particolarmente un libro che ha letto, lo consiglia a tutti, così che il suo amore possa essere condiviso. Una che quando ama particolarmente un film sarebbe in grado di guardarlo milioni di volte, stupendosi, ridendo o piangendo a dirotto esattamente nello stesso punto, ogni volta.

Una che quando visita una nuova città, si immerge completamente camuffandosi tra i passanti non volendo mai apparire una turista, ed in questo suo entrarci dentro pienamente se ne innamora così tanto al punto da lasciare in ogni dove un pezzo del suo cuore che in cambio avrà contribuito ad arricchire la sua anima.

Non so se questo sia il modo di amare più giusto, perchè spesso in questo modo di amare mi ci perdo.
Non so se qualcuno avrà desiderio di ricambiare mai il "favore". Non so se si tratti contrariamente a ciò che credo di un amare quanto basti, a sufficienza, troppo poco o troppo di quel troppo che storpia. So soltanto che è il mio modo che sussume un come, un quando ed un perchè in cui non c'è ciò che giusto o sbagliato, non c'è un tempo che impedisca di farlo nè una ragione per cui valga la pena desistere. E' un modo che sento l'esigenza ogni volta di spiegare per non chiudermi nella categoria del "Chi ama troppo" , che in fondo non è nemmeno una definizione nel senso proprio del termine, perchè nel catalogarmi senza dare spiegazioni questo modo di amare sarebbe sterilizzato, stigmatizzato, compresso, minimizzato proprio come l'amore non dovrebbe mai diventare.
Io, invece, sarei nient'altro che una definizione, ciò che non vorrei mai essere.

sabato 23 febbraio 2013

Dal dizionario umano: significato di analfabetismo.

"Analfabetismo": ignoranza del sistema di scrittura e lettura, dovuta a mancata istruzione di base.

Chi più, chi meno, credo che la stragrande maggioranza ne sia esente. Tutti conosciamo l'alfabeto, tutti scriviamo, tutti sappiamo leggere.
C'è chi millanta più di una laurea, di leggere tanto, chi si riempie la bocca di citazioni di grandi autori cacciandole come un coniglio dal proprio cilindro, chi conosce almeno una lingua straniera.
Meritevoli, senza dubbio, al passo con una società in cui questo è dato per scontato se si vuol raggiungere una posizione degna di nota, prodotti di una società in cui sei valutato per ciò che fai nonostante spesso non coincida con chi vorresti invece essere. Ma la definizione è chiara, dunque perchè scomporsi. Non siamo analfabeti, perchè abbiamo certamente ricevuto un'istruzione di base che ci consente di saper leggere e scrivere.
Ma credo che all'analfabetismo bisogna dare un'accezione più ampia, e allora forse ci accorgeremo che non risparmia nessuno, o quasi.

Ciò che scriviamo dovrebbe essere il frutto di ciò che pensiamo.
Nonostante possa sembrare un paradosso Marzulliano, spesso si pensa più a ciò che si deve scrivere, ma non si scrive ciò che si pensa. Un punto in meno alla nostra idea di appartenere alla categoria dei non analfabeti.

Ciò che si scrive, il frutto di ciò che pensiamo, dovrebbe essere altresì pronunciato.
La scrittura è di certo una scappatoia più comoda attraverso cui trasmettere un'idea senza però mai in fondo vederci nelle prime file di un plotone, perchè se fossimo in grado di pronunciare ciò che scriviamo, il passo successivo sarebbe certamente di agire per la realizzazione di quanto detto perchè scritto e all'origine pensato. Scriviamo "mi manchi" perchè forse lo pensiamo ma non siamo in grado di urlarlo nè di fare il possibile per lenire la mancanza. Scriviamo "ti amo" e qualche volta lo diremo anche, ma di fronte ad una strada con possibili alternative da seguire che potrebbe condurci lontano, su di un binario differente, scegliamo spesso di mettere il nostro amore in secondo piano, pensando che con i nostri obiettivi quell'amore non c'entri, ma l'amore non solo ti fa restare, ma il distacco ti sbrana.

Leggiamo i best sellers della letteratura senza essere in grado di saper leggere un cuore, un cervello, le smorfie di un viso, la gestualità, uno sguardo, l'arricciamento del naso, il grattarsi la testa, un sorriso negato o offerto, un'anima. Spesso non sapremo in grado nemmeno di sfogliare le pagine della nostra vita, prima di quelle degli altri, libri impolverati che rimarranno sepolti nello stomaco senza mai rispolverarne la copertina ed aprirli. E a cosa varrà lo studio di interminabili manuali universitari, la lettura di Tolstoj o Victor Hugo, se gli unici libri cui non dovremmo mai negare la nostra attenzione resteranno chiusi per paura di non trovare la più corretta chiave di lettura?

Conseguiamo una laurea per diventare esattamente quello che abbiamo scelto di diventare: un avvocato, un medico, un insegnante, un ingegnere o un farmacista. Ma ignoriamo il mestiere più antico, naturale nella sua complicanza, la base di ogni istruzione, quello la cui priorità, nella sua più intima essenza, richiederebbe lo scrivere su un post it da attaccare al cuore per lasciare che esso ci conduca esattamente dove vorremmo trovarci senza alcun se nè ma, leggere un'anima, la propria e dell'altro, per scoprirsi in fondo a vicenda : l'essere umano.

Potremmo faticare per diventare chiunque, ma prima di scrivere, su un blog, un social network o un pezzo di carta, è necessario ricordare che la prerogativa è una concatenazione tra pensare-scrivere-esprimersi-agire. Prima di leggere un libro è necessario imparare a leggere le persone che si riveleranno forse il libro più bello o il più tremendo, ma nell'uno e nell'altro caso sarà l'unico ad insegnarti la vita. Conseguiamo una laurea o anche più di una ma se ignoriamo l'accezione più ampia del concetto di analfabetismo, potremmo diventare chi vogliamo, continuando ad essere soltanto una massa di analfabeti. La definizione di "analfabetismo" in qualsiasi dizionario di lingua italiana vincerebbe certamente una simile considerazione. Io le definizioni le detesto, sterilizzano, tolgono invece di aggiungere, appiattiscono, minimizzano, comprimono, sintetizzano. Sguazziamo in una sintesi che non ci definisce mai abbastanza, che in fondo rende tutti innocenti perchè basta appigliarsi ad un dettaglio, ad un sinonimo o ad un contrario per catalogarci in una categoria che fino in fondo non ci apparterrà mai abbastanza.

Siamo tutti in fondo analfabeti nell'accezione più ampia del termine, e non ce ne rendiamo nemmeno conto.


giovedì 21 febbraio 2013

Ma se aspettassimo Godot?

Il punto è che potrei incontrare anche un Romeo dei giorni nostri che mi dica alla finestra "...chiamami soltanto amore ed io sarò ribattezzato; da ora innanzi non sarò più Romeo ...", ma il mio istinto mi dice che dopo qualche tempo rivedrei in quel fantastico Romeo solo un gomitolo di belle parole che non sarei in grado di dipanare, un'espressione del mio tentativo fallimentare di costruire storie impossibili dove c'è più strazio che amore, una chimera priva di contorni definiti, in fondo una figura che si perderebbe nella tua individualità senza però averne una propria, mancando della dote per me fondamentale, alla base di ogni rapporto, che è quella della trasmissione di una parte di se stessi senza dover godere necessariamente di luce riflessa. 
Potrei forse riconoscere anche un Oliver Twist tra la folla, di quelli che in volto hanno scritto che sono una storia triste e allora ti commuovono al punto da desiderare di volerli salvare, perchè ti sarai convinta che nel salvare qualcuno salverai anche te stessa. Ma quando tutto culminerà in un lieto fine, quando la tua storia triste si sarà tramutata in una storia di successi, probabilmente avvertirai la sensazione che il tuo tempo sia scaduto, che la tua missione si sia conclusa. A questo punto non ci sarà forse bisogno di restare, perchè andrai via tu, o lo farà il tuo Oliver Twist. Non era una storia impossibile come quella con Romeo, ma una storia la cui prerogativa era che fosse triste, allora perchè continuare se non se ne riesce a trovare un senso anche dopo aver portato con successo a termine la nostra impresa di salvezza.
Avrò incrociato qualche bel Casanova in cui ho sperato di ricercare ostinatamente una sua celata sensibilità che potesse sposarsi con la mia, come se volessi scrivere una storia come quelle di Jane Austen, per poi accorgermi che l'unica che avrei potuto scrivere sarebbe stata forse molto più vicina agli Indifferenti di Moravia.
Ho tentato di assorbire il cinismo di Bukowski e la tagliente ironia di Palahniuk, ma quando mi sono imbattuta in persone che ne facevano il motore della loro esistenza, mostrando tutto questo cinismo e questa tagliente ironia come medaglie di cui andar fieri pronte a divenire un'arma, le ho detestate, cominciando a detestare inevitabilmente me stessa per quel mio tentativo di diventare una persona che in fondo non potevo essere. Perchè volevo essere una persona forte, ed una persona forte non smette mai di credere nelle cose belle nonostante non le piovano dal cielo, nel fresco profumo dei fiori di primavera nonostante sia inverno, perchè contrariamente non si tratta di forza, ma di uno scudo, di un inconsistente alibi per sopperire alla propria debolezza. 
Ma la verità è che io non ho mai preteso di essere la Giulietta del Romeo di turno, nè tanto meno rivestire i panni del signor Brownlow per il suo Oliver Twist, nè una delle tante donne di un sedicente Casanova che speravo diventasse il signor Darcy pur essendo nient'altro che uno dei protagonisti del romanzo di Moravia: mi ci sono semplicemente trovata, pur aspettando altro. Ma la più assurda delle verità è che intanto aspettavo Godot. Un po' a tutti capita di aspettare il personaggio misterioso dell'opera di Becket, che gli altri personaggi vanamente attenderanno sino alla fine seduti comodamente su di una panchina, parlando di cose futili quanto banali per essere in linea con uno spietato conformismo che sembra quasi elogiare il nonsenso della vita, senza mai andare incontro a Godot, che non arriverà mai. In fondo tutti lo aspettano perchè non si conosce che faccia abbia, nè quanto sia alto, se abbia un humor inglese, se preferisca il cinema al teatro, i Beatles ai Rolling Stones. Paradossalmente lo si aspetta senza conoscerne alcunchè, senza mai alzarsi da quella panchina nel tentativo seppur vano di cercarlo senza che sia lui ad apparire tutto d'un tratto.
Capita forse quando quello che abbiamo conosciuto non ci è mai piaciuto pienamente, allora cominciamo ad immaginare ciò che per sommi capi potrebbe invece piacerci, e sterilizzando nella figura di Godot tutto ciò che farebbe al caso nostro, cominceremo ad aspettarlo pur non sapendo dove si trovi e con chi e se esista realmente, ma sembrerà talmente meraviglioso ciò che stiamo aspettando che ci convinceremo che ne valga la pena. Ma se ne vale la pena, se stiamo aspettando Godot e se Godot sembra non arrivare, perchè non ci alziamo dalla nostra panchina per cominciare a cercarlo prima che il sipario si cali e la platea cominci ad applaudire?

Come si chiama il tuo Godot? Qualsiasi nome abbia, che sia amore, serenità, amicizia, successo, o nella sua complessità semplicemente pienezza, non puoi aspettarlo seduto su di una panchina. Queste attese si rivelano generalmente vane, allora spenderai una vita aspettando Godot che non vedrai mai arrivare semplicemente perchè forse avresti dovuto cercarlo. Spenderai una vita nell'attesa di qualcosa di cui ignorarei persino la forma. Spenderai una vita avvolta dal fascino di un mistero che non riuscirai mai a palpare con mano.

In fondo, aspettare Godot fa comodo a tutti.

mercoledì 20 febbraio 2013

Vivere al contrario.

A volte sorseggio del caffè rimasto in cucina verso le 12.30, orario in cui dovresti preparare lo stomaco al pranzo ed invece io sorseggio un po' di caffè che favorisce la chiusura del mio stomaco, non perchè non mi vada di pranzare, ma per tenermi sveglia. Sì perchè in certe giornate, quando il Sole è a metà del suo giro, mi capita di imbattermi in una strana sonnolenza, come se non fossi sincronizzata con il movimento solare, come se la mia giornata non fosse giunta a metà del suo giro, ma è come se ne desiderassi già la fine.
Ma quando il Sole finalmente tramonta, talvolta vorrei che la mia giornata potesse iniziare da lì: con un cielo stellato che fa da cornice alla maestosità della Luna che vive di luce riflessa dal Sole, con il buio che oscura la tua stanza imponendoti la luce artificiale di una lampada perchè vuoi restare sveglia mentre tutti dormono, con il silenzio delle strade deserte che sembra talvolta dirti molto di più di quanto lo facciano i clacson delle automobili o il vociare dei passanti.
Un po' come vivere giornate al contrario, considerando che in realtà una giornata del genere si presta ad essere l'espressione di certi aspetti della tua vita. 
Quando ero piccola ho avuto dei problemi di salute, adesso, "nonostante l'età", a parte qualche capello bianco che comincia a spuntare, credo di essere sana come un pesce. 
Quando ero adolescente, mentre tutte le mie amiche prendevano una cotta passeggera per uno diverso ogni settimana, io invece mi innamoravo. Mi innamoravo ed inevitabilmente mi straziavo ad ogni gesto di indifferenza. Adesso invece non mi innamoro più, ma riesco ancora incomprensibilmente a straziarmi ad ogni singolo gesto di insana ed ingiustificabile indifferenza. Non so come sia possibile, eppure accade, anche se in una vita "normale" lo strazio dovrebbe succedere ad un amore perduto e non l'inverso.
Quando inizio un percorso, lavorativo o universitario che sia, lo intraprendo con invidiabile convinzione, come se cominciassi la corsa non aspettando altro che raggiungere la meta, ma quando sto per toccare la bandierina sopraggiunge la sensazione di voler quasi tornare indietro, come se preferissi partire dalla meta per fare il percorso inverso e godermi le singole tappe gradualmente in maniera più intensa.
Ogni tanto mi capita di guardare il calendario appeso alla parete ed invece di conteggiare il numero dei giorni per capire quanto possa ancora fare in quell'arco temporale, giro già la pagina al mese successivo come se volessi in fondo capire quanto manchi per non poter più realizzare ciò che ho in mente.
Quando parto mi convinco di sapere già cosa voglio fare, ma quando arrivo quello che voglio fare sembra perdersi fra i fumi di un'aria rarefatta che ti fa mettere in discussione l'obiettivo per cui sei partita, cominciando a valutare altre strade che avresti dovuto percorrere forse sin dall'inizio ma che probabilmente non avresti comunque considerato per quel tuo modo di valutare quasi alla fine, mai all'inizio, per quel tuo modo di straziarti per fini a tuo parere incomprensibili, ma non meno del tuo modo di non godere mai a pieno di un inizio.
All'inizio di un rapporto di qualsiasi tipo non riesco mai ad essere spontanea, la mia spontaneità emerge in maniera dirompente prestandosi a dei colossali fraintendimenti soltanto alla fine, quando non ce ne sarebbe in realtà alcun bisogno.
Parlo quando dovrei restare in silenzio, mi chiudo in un silenzio tombale quando sarebbe preferibile urlare.
Corro quando dovrei fermarmi, mi fermo quando sarebbe il caso di correre.
Rallento sempre troppo tardi, velocizzo i ritmi sempre troppo presto.
Mi dedico alla scrittura di un racconto qualunque per un concorso letterario quando dovrei proseguire nella scrittura della tesi, e trascorro l'intera giornata a scrivere la tesi nonostante la scadenza sia lontana mentre si avvicina quella per spedire il racconto.

Ammetto di vivere lentamente e al contrario, proprio come quelle giornate in cui ti svegli stanca e vai a dormire da sveglia.

Ma alla fine, chi stabilisce cosa sia l'ordine? Chi stabilisce quando una vita possa dirsi spesa al contrario?

Mi fido solo di Mahatma Gandhi, e lui in proposito mi pare non abbia mai detto niente. In fondo anche Woody Allen, con la sua storia del cominciare a vivere morendo e morire perdendosi in un orgasmo, sarebbe forse d'accordo.


martedì 19 febbraio 2013

Come le rondini.

Credo che di un social network come facebook ne avrei fatto a meno se non avessi avuto l'esigenza di recuperare dei contatti che altrimenti avrei perso.
Credo che di riapparire "virtualmente" ne avrei fatto a meno se non fosse che non so sparire in effetti.
Me ne so andare via, ma ogni volta, devo tornare.
E non perchè credo che qualcuno mi aspetti, in realtà nessuno me l'ha mai dimostrato, ma perchè credo che esistano due categorie di persone: le farfalle e le rondini.
Il ciclo vitale delle farfalle è breve e si articola in quattro fasi: uovo, bruco, pupa e adulto.
Dall'uovo esce il bruco che sceglierà uno stelo adatto su cui tessere un cuscinetto di seta cui attaccare la coda. La cuticola del bruco si fende lungo il dorso e la pupa inizia ad emergere. Una serie di contorcimenti sospinge la cuticola del bruco verso la coda, questa vecchia pelle viene abbandonata ed una serie di uncini sulla coda viene fissata al cuscinetto sericeo. A questo punto la pupa assume la sua forma definitiva. Poco prima dello sfarfallamento, il colore della farfalla adulta diventa vagamente visibile e la farfalla comincia faticosamente ad uscire. La vita di una farfalla sarà breve, può durare da qualche giorno ad una o al massimo due settimane e solo eccezionalmente per un mese. Poi la farfalla si spegne, in breve tempo perderà le sue tinte variopinte, sparirà e non avremo forse più occasione di incontrare la stessa a volteggiare nell'aria.
Certe persone sono come le farfalle. Ci sembrano incredibilmente belle, come se mai avessimo incontrato qualcosa di simile, ci sembrano così diverse che quasi questa diversità ci incute timore. Ci avvicineremo con estrema cautela e quando ne apprezzeremo quel tenero volteggiare, di lì a poco scompariranno senza mai più riapparire ai nostri occhi. E ci tormenteremo al pensiero al punto da vagare alla ricerca di quei colori meravigliosi che avranno colpito la nostra attenzione, senza mai più trovare la stessa. Saranno misteriosamente scomparse, così, nell'aria, senza nemmeno avvisarci, nè darci un ultimo saluto, perchè in effetti sono state programmate per apparire e colpire per la loro bellezza, ma poi per sparire nella fugacità di un tempo che non potremmo arrestare. Loro giungono e se ne vanno, ma non possono tornare.
Le rondini hanno invece l'attitudine di emigrare verso posti caldi. Da noi giungono in primavera e riemigrano con i primi freddi. Credo siano degli uccelli che abbiano bisogno di avvertire del calore sulle loro piume altrimenti morirebbero. Ai primi segnali, senza alcun timore, se ne vanno. Ma poi insieme all'intero stormo, con un'inusuale costanza, devono ritornare. Un partire e ritornare che diventa la costante della loro vita, lunga o breve che sia. E allora alla loro partenza ci si abitua, ma in fondo, anche un po' banalmente, si attende sempre un loro ritorno.
Allora ci sono anche persone così, persone che sono come le rondini. Persone in cui si annida un non so che di scontato e di banale nei loro gesti, perchè non sono mai del tutto inaspettati, l'imprevedibilità non è in fondo una dote che appartiene a loro sebbene qualcuno voglia riconoscerglielo. Ci sono persone che hanno l'esigenza di sentir caldo e quando avvertono i primi freddi vanno nel panico, perchè temono gradatamente di morire. Allora cercano di inventarsi qualsiasi cosa per sopravvivere, nutrendo la consapevolezza di non poter restare e allora se ne vanno, partono. Incrociano persone che credono possano fare al caso loro, persone che sperano facciano parte di quello stormo di rondini che viaggeranno sulla loro lunghezza d'onda, ma il più delle volte ne rimarranno tremendamente delusi, perchè in fondo quelle che pensavano fossero rondini non si riveleranno altro che farfalle. Delle bellissime ma precarie farfalle. Veloci, fredde, incostanti. E allora ritornano sperando di mettere radici che probabilmente non cresceranno mai, perchè il partire e il ritornare è un aspetto intrinseco della loro indole e non possono non esserne accondiscendenti. Queste persone se ne vanno ma non possono non ritornare, e non perchè gli altri se lo aspettino, nè perchè ci sia qualcuno che in fondo stia ad aspettarli, ma perchè riuscirebbero a restare se esistesse un luogo in cui facesse caldo per 12 mesi all'anno. La loro è una capacità che hanno dovuto sviluppare ma di cui in altre circostanze ne avrebbero fatto a meno, perchè è il freddo che incombe che gli impone di andar via, ma loro, riuscirebbero a restare.
Allora ho provato ad omologarmi alle farfalle che spesso ho incrociato volando, ma significava volar basso, colpire per appariscenza, non provare il bisogno di sentire calore, significava dopo poco sparire. Ci ho anche provato ma non ci sono riuscita, perchè forse sarò scontata o banale, ma io proprio non so sparire, devo andarmene ma con la stessa costanza ritornare, in una temporaneità che si chiama sempre "troppo tardi" o "troppo presto", c'è sempre un troppo di troppo nei miei comportamenti, ma ad un silenzioso niente ho sempre preferito un rumoroso troppo, ho sempre preferito traboccare che essere prosciugata.
Non credo che si preferiscano le rondini a delle farfalle. Non avranno la loro bellezza, il battito delle loro ali non sarà fresco e leggero, non avranno la loro luminosità nè il fascino di chi potrai incrociare solo per breve tempo e allora ti incanterai ad osservarle fin quando il tuo tempo non sia scaduto.
Vorrei tanto coltivare la dote dello sparire, del non tornare quando tutti un po' in fondo si aspettano che lo faccia, vorrei tanto comprendere cosa si provi a sapere che qualcuno ti aspetta ma tu intanto avrai scelto di sparire senza mai più voltarti. Ma in fondo non sono una persona-farfalla. Faccio esattamente quello che tutti si aspettano che io faccia, in primavera o anche fuori stagione, troppo tardi o troppo presto: ritornare.

(...e non parlo di un social network, ovviamente!)

domenica 3 febbraio 2013

Un post che sconsiglio di leggere.

Talvolta non sono le persone a mancarci, ma l'idea della loro presenza nella nostra vita.
Sarà allora una mancanza che si intersecherà con un bisogno, una ferita ben più profonda, da cui il sangue zampillerà senza essere in grado di fermarne il flusso.
Perché quando la mancanza si presta ad esser soltanto tale nel vero senso della parola, saprà di concretezza, avrà un nome, un volto, un corpo, un'immagine che potrà prestarsi ad essere la causa della nostra inappetenza, il colpevole del nostro rifugiarci nel groviglio dei nostri pensieri come fossimo in un labirinto, in fondo un po' anche il nostro alibi.
Ma quando una presunta mancanza si associa al bisogno, quando si tratterrà semplicemente di "idee che qualcosa o qualcuno ci manchi" la cosa è ben più complicata. Perchè tutto saprà di astrattezza, di irrimediabilmente vago, come se rincorressimo una piuma che intanto va verso il cielo trasportata dalla forza del vento, come se non ci fosse niente di umano, nessun nome, nessun volto, nessun corpo, nessuna immagine sarà la causa della nostra inappetenza, nessuno sarà in fondo il colpevole dell' alienarci nei nostri pensieri confusi, nessun alibi, solo un labirinto che in fondo siamo stati noi da soli a costruirci, come se l'avessimo fatto volutamente perchè l'alternativa a questo niente fatto di idee sarebbe il niente fatto del niente, come carne viva lasciata a bruciare in attesa di raccogliere le ceneri.
Ad una concreta mancanza c'è rimedio. Sapremo dove andare, a chi rivolgerci, sapremo cosa dire. Ed anche se non sarà placata il tempo lenirà la nostra mancanza insoddisfatta.
Ma quando la mancanza non è solo tale ma si interseca con un bisogno inconscio non è semplice trovar rimedio. Perchè saremo spaesati senza una meta, il tempo sembrerà lenire ma d'un tratto ci ricapulterà in un' assurda pesantezza, vagheremo perdendo la nostra capacità di riconoscere le persone in cui credere o meno e allora ci appiglieremo a chiunque troveremo lungo il nostro tragitto dai sentieri indefiniti, assaggiando un appagamento che sarà breve e che presto ci costringerà a vagare nuovamente. E quando ci chiederanno se avremo qualcosa da dire risponderemo "Niente", come se questo non valesse quel "tutto" che celiamo dietro un falso niente, minimizzando il nostro riempirci di idee che non trovano mai appagamento, come se riducessimo la dignità del nostro incessante vagare alla ricerca di una meta, come se in fondo non volessimo riconoscere noi stessi.
Abbandonare l'idea che manchi qualcosa sarebbe forse l'unico rimedio. Ma come si fa ad abbandonare un'idea che esercita su di te così una così grande pressione da essere il motore del tuo continuo vagare?Come si fa ad abbandonare un'idea se in fondo siamo noi stessi costituiti anche di idee?
Non lo so. Un tempo avrei saputo scrivere tante belle cose su come trovare un giusto rimedio. Non ho mai dato un indirizzo preciso al mio blog perchè in fondo mi capita di mettermi al computer e scrivere pensieri che a voce alta spesso non riesco ad esprimere, e nel lasciare scivolare le mie dita sulla tastiera riuscivo, alla fine, molto spesso a scorgere tra una parola e l'altra una "soluzione". Ma da un po' questo gesto del lasciare scivolare le dita sulla tastiera non mi aiuta più in questa impresa. E' come se avessi esaurito la mia capacità trasmettitiva, come se forse avessi esaurito cose da raccontare, come se nulla mi ispirasse, come se tutto in fondo si incanalasse in un'unica direzione che non trasmette positività. E non perchè una blogger debba necessariamente raccontare cose divertenti o ergersi a psicologa, ma il mio non dare un preciso indirizzo al blog si è sempre sposato con un voler trasmettere chiari segnali, stimolare magari la mente, far pensare a chi legge di scorgere in delle righe verità condivise o pensieri opinabili o alcuni che potessero da quel momento chiarire dei dubbi. Ma cosa c'è di vero o stimolante in quello che ho scritto, se non un groviglio di pensieri forse scritti correttamente ma che sanno di poco o forse di niente, cacciati con veemenza perchè sentivo il bisogno di farlo ma non condividerlo con nessuno. E' questa la giustificazione che presto a dare a me stessa sulla mia sparizione virtuale su facebook, di cui ne facevo uso nell'ultimo periodo quasi esclusivamente per promuovere il mio blog: riordinare i pensieri e le mie emozioni. Ho twitter dove in fondo seguo pochissime persone, dove le notizie sono così tante e veloci che sebbene lo pubblichi so bene che nessuno lo leggerà. Ci sono poi i soliti "affezionati" che forse lo faranno come no, ma in fondo chi è che sceglierebbe di leggere un post la cui lettura è sconsigliata dalla stesse autrice? Spero vivamente nessuno.