sabato 30 marzo 2013

Rispetto

Nell'universo della finzione, dove bugiarda può essere un'amicizia, una presunta lealtà, ove bugiardo può essere uno sguardo, una promessa, un gesto, ove finto può essere un amore tanto osannato, c'è una cosa che costituisce la base di ogni sentimento, da cui deriva la naturalezza nel viverli, c'è una cosa che sfugge dall'universo della finzione: il rispetto. 
Non credo che non ci si riesca più ad emozionare perché ad un certo punto l'epoca delle emozioni ci deve abbandonare per lasciar spazio al pragmatismo sterile e senza alcuna forma.
Non credo che non si riesca più a vivere un'amicizia in modo empatico perché temiamo di offrire troppo all'altro al punto da rimanerne scottati e pronti a fare un passo indietro.
Non credo che oggi non ci si innamori più perché siamo giovani disillusi con un cuore troppo sporco e malandato per essere pulito e rinfrescato. 
Non credo che non si possa provare a vivere un amore come lo si faceva in passato, perché nessuno ci dedica più poesie, nessuno è pronto ad aspettare, nessuno vuol più parlare.
Credo semplicemente che esistano due categorie di persone: quelle che spalmano il senso di rispetto come fosse del buon burro sulla propria fetta biscottata appena svegli ogni mattina, e quelle il cui seme non è stato piantato né ci abbiano mai provato. 
Credo che se oggi non ci si innamori più, non ci si emozioni, non si riesca a vivere un'amicizia profonda in cui ogni gesto si sposa con una parola che ritroverai esattamente in uno sguardo che sarà come acque limpide di un mare cristallino, è perché della parola rispetto non si conosce alcunché.
Non pretendo amori, né amicizie, né promesse, sguardi limpidi, gesti estremi, naturalezza e lealtà. Pretendo soltanto l'unica cosa su cui nessuno è in grado di mentire, la madre dei sentimenti, ciò che rende il percorso lineare senza alcuna ombra: il rispetto.
Provo tenerezza per chi non lo offre, perché significa che non ne conosce alcuna forma, significa che non ce l'ha nemmeno per se stesso, significa che è solo.
Ma lo ringrazio perché ogni volta ricordo ciò che non vorrò mai diventare.

giovedì 28 marzo 2013

Una corsa contro il tempo

Ho sempre avuto paura che il tempo mi consumasse, che gli attimi corressero così velocemente in un tempo che intanto disintegrava pezzi di vita, come granelli di sabbia in una clessidra. Ho avvertito sempre come se ci fossero scadenze da rispettare, e allora riempivo quell'arco temporale di tutto ciò che trovavo per strada, anche di ciò che avrei potuto omettere, nella speranza che il tempo non mi tradisse opacizzandomi, che mi desse la possibilità di vincere quelle scadenze, di restare sotto qualsiasi forma anche una volta superate. E invece ogni volta mi tradiva, dalla scadenza non potevo fuggire, e quel tempo racchiuso tra una scadenza e l'altra diveniva un ricordo sempre più tiepido, sempre più amaro, una miscela di un "noi" sempre più opaco e di sottilissimi granelli retti in un pugno, da versare nella clessidra per ricominciare il gioco del "vediamo chi vince: noi o il tempo", senza mai render pubblica la mia corsa ove il respiro affannato mi induceva ad allontanarmi dal traguardo senza che nessuno si rendesse conto della fatica.
Ma ieri ero in metropolitana ed accanto a me era seduta una donna che maneggiava con un' inconsueta calma dei referti, forse sulla quarantina, visibilmente scarnita, di un pallore malato in volto ed un foulard colorato sulla testa che nascondeva la totale calvizia causata presumibilmente da cicli ripetuti di chemioterapia. Come d'incanto i miei pensieri si erano assottigliati sino a ridursi in poltiglia, quasi come se mi vergognassi nel pensare ciò che la mia mente aveva riprodotto, sentendomi una stupida alla visione di quella donna. Non conosco la sua storia, ma il suo volto parlava nonostante stesse in silenzio, mostrando la sua malattia senza alcun imbarazzo né volontà di generare compassione. Il suo sguardo fiero che non osava mai abbassare era sintomo di coraggio e desiderio di colorare la sua vita di tinte ben più vivaci di quel foulard che le copriva il capo, come se rappresentasse una battaglia tra la vita e la morte, una corsa contro il tempo in cui le scadenze non avrebbero mai preso il sopravvento, non prima di averci almeno provato.
Credo che ognuno a suo modo consegua una personale corsa contro il tempo che il più delle volte sfugge rendendoci impotenti. Anche quella donna ne aveva una, ma per la prima volta avevo visto una vittoria nonostante il traguardo non fosse stato ancora superato, nonostante la corsa non fosse ancora terminata, addirittura prima del tempo, come se le scadenze fossero illusorie. Allora aveva dato in quel preciso istante una lezione a me e a tutti quelli che come me giocano col tempo sapendo a priori di uscirne forse sconfitti: non aveva avuto paura di palesare la sua corsa contro un tempo che le remava contro come un vento sfavorevole. Forse questo è l'unico modo di sentirci padroni del tempo, di sentirci vincitori nonostante tutto.
E mentre me lo stava insegnando, per la vergogna, ho detto grazie zittendo i pensieri.

lunedì 25 marzo 2013

Amore e altre forme.

Siamo frutto dell'amore, di quella compenetrazione di corpi che ne è l' appendice, o fugace quanto una stretta di mano, che dell'amore potrebbe non avere nulla all'apparenza, ma in sostanza ne ha prodotto una forma. E allora è naturale avvertirne il bisogno, come naturale è stata la nostra nascita e la causa di essa. Ma allora perché abbiamo paura di dirlo o quando lo sussurriamo sottovoce per timore che qualcuno ci senta continueremo a vergognarci per il resto dei nostri giorni? Come un frutto maturo che una volta caduto dall'albero neghi la sua provenienza, non riconosca più il ramo che l'abbia visto sbocciare e poi maturare, come se preferisca essere scaraventato da una folata di vento sul terreno arido ai piedi dell'arbusto e lì voglia restarci nonostante presto potrebbe marcire.
Ma la verità è che dell'amore ne abbiamo bisogno in ogni sua forma, dalla più estrema, dalla più aspra, alla più minuziosa e delicata, anche se dell'amore non conosciamo nulla anche quando avremo la presunzione di conoscerne i dettagli o la pretesa di appurarne almeno gli aspetti principali. Anche quando dell'amore vorremmo conoscerne almeno una forma, pensando di non essere stati mai in grado di conoscerne una, ignorando di essere noi una delle tante, la prima, la più importante, l'inizio del nostro percorso cognitivo. 
Spesso capita di rincorrerlo, di pensare che si nasconda dietro una siepe, urliamo perché sia in grado di ascoltarci, illudendoci che l'amore abbia voce per risponderci. Ma l'amore non corre, passeggia, non si nasconde ma spesso si pone davanti a noi in una combinazione di forme o come manifesto di una di queste. L'amore non ha voce, ma soltanto occhi per vedere, orecchie per ascoltare. Non urla, ma è silenzio, quel silenzio pungente o intervallato da parole, poche, inaspettate, che riempiono più di qualsiasi dichiarazione.
Perché oggi la dichiarazione d'amore più bella è sentirsi una forma d'amore, imprecisa ma dai contorni definiti, è essere per l'altro l'unica forma visibile dunque esistente. Una forma che trova colori vivaci anche nelle tinte opache, precisione anche dove avremo potuto calcare meglio. 
E' questa la dichiarazione d'amore più bella, spontanea, controcorrente nel suo apparire obsoleta: essere la forma d'amore più piena, che ce lo dica qualcuno, che lo pensiamo noi.



domenica 24 marzo 2013

Le parole che fregano.

Le parole, quelle, mi hanno sempre fregato.
Forse perché mi piace scrivere, mi piace ascoltare la storia delle vite degli altri più che parlare della mia, mi piacciono le parole pronunciate a singhiozzo per l'imbarazzo del momento, intervallate da lunghi silenzi ove il respiro appare eloquente.
Non lo so, ma le parole, soprattutto quelle che sanno di promesse che non verranno mantenute, quelle, mi hanno sempre fregato. E mi hanno sempre fregato prima che fossi io a fregare loro, sono sempre cadute nel mio spazio come neve in primavera, come una palla battutami contro mentre ero di spalle.
Mi sono voluta convincere che i gesti contassero di più, ed in realtà è così, ma spesso mi capita di dare alle parole un'importanza maggiore, quasi come se volessi difendermi da gesti inesistenti, che quasi contraddicono quella ripetizione di suoni fatta da vocali e consonanti che si rincorrono come se volessero andare chi sa dove, frenando il loro flusso solo quando oramai varcata la soglia della comprensibilità io gli domando "Ma dove andate?" ma loro a quella domanda non rispondono mai.
Credo alle parole, soprattutto quelle più semplici, come un "ci vediamo", "ti voglio bene", "per te ci sono", nonostante passino giorni, a volte mesi prima di rivederci, nonostante spesso l'affetto sulla mia pelle io non l'avverta, nonostante ognuno ci sia a suo modo, per cinque minuti, un'ora, un'intera giornata o per anni, con una telefonata o una canzone che una volta ascoltata non sarà più soltanto tale ma il cui testo racconterà una storia, la nostra. Un modo che vede presenti nell'assenza o assenti avvertendone comunque la presenza.
Un modo che spesso non coincide con il mio, un modo che talvolta non è riuscito ad attutire le distanze come avrei desiderato. 
Ma alle parole credo così profondamente che a blande promesse raccontate per non ferire preferisco il silenzio. Ed è per questo motivo che parlo poco ma osservo tanto, che talvolta avrei preferito esser sorda  più che cieca. Perché l'assenza dei gesti quasi me l'aspetto, addirittura talvolta la giustifico nonostante non meritino giustificazioni, ma le parole, quelle, continuano a scivolarmi lungo tutto il mio corpo lasciando ovunque il segno della loro percorrenza.

giovedì 21 marzo 2013

Un anno in più.

Sono trascorse quattro stagioni, è di nuovo primavera, ho ancora una volta un anno in più, un numero in più da aggiungere. Un anno in cui ho avvertito presenze piene, qualche volta incostanti, altre che si sono man mano svuotate divenendo ineccepibili mancanze. Un anno in cui mi sono rimessa in gioco, come un giocatore di poker inesperto, riscuotendo talvolta la fortuna del principiante, altre pagando invece la mia inesperienza. Un anno di avventure, di valigie, di ricordi, di emozioni autentiche, di legami di cui ho appurato la triste fugacità. L'anno di un tempo che mi ha concesso, ma che mi ha anche tolto. L'anno delle parole e dei gesti, delle lacrime che dicevano addio pur sperando in un arrivederci, delle grasse risate che pronunciavano grazie, degli sguardi che volevano dire ci sono, delle spalle che una volta girate mi dicevano sto andando via.
L'anno dei sacrifici, della forza di volontà, della maturità nell'accettare che bisogna lasciare le persone libere di scegliere per coglierne la reale natura che si riscontra nelle scelte ed in ogni minuzioso dettaglio, dell'impotenza nel comprendere che tutti arrivano ma pochi restano, e che bisogna lasciare che le cose prendano il loro corso naturale per evitare di svegliarci un giorno con poche briciole inconsistenti nelle tasche di una vita che sembrerebbe poi non così piena. L'anno del risveglio delle passioni, dell'apertura dei cassetti in cui avevo riposto i miei sogni, dell'esigenza di avvertire calore come quello che filtra attraverso le piume di una rondine, bistrattando tutto ciò che non è in grado di darmene. 
Un anno in cui ho rinsaldato legami, coltivato quelli già esistenti, in cui ognuno mi è stato accanto, ciascuno a suo modo. Un anno in fondo pieno di scoperte, nonostante ancora nessuna prenda il nome di certezza. 
Un anno pieno di castelli di sabbia e di bolle di sapone, in cui ho cercato di godere comunque del Sole che tramontava all'orizzonte, abbassandosi mano mano nelle acque cristalline di un mare calmo, in cui ho tentato comunque di alzare gli occhi, lasciando perdere il mio sguardo verso ciò che avrebbe potuto nascondersi dietro le nuvole mentre le bolle scoppiavano una ad una senza riuscire a fermarle. 
Un anno in cui c'è stato tutto quello di cui avevo bisogno, o di cui a ventiquattro anni avrei potuto farne a meno. Un anno di A di amicizia, ma non di amore, nemmeno a pagarlo, nemmeno illusorio. 
Ma forse non importa ciò che c'è stato, ciò che non è accaduto, ciò che avrei voluto ci fosse, ciò che avrei desiderato tanto evitare. Conta che un altro anno c'è stato. Un po' l'ho riempito io, in parte ho lasciato che fosse, ma nessuno l'ha mai riempito al mio posto. Un anno di me, di me diversa, di un più che ho seminato per coglierlo col tempo, in attesa che giungesse di nuovo la primavera.

domenica 17 marzo 2013

Un universo di funamboli

Mentre casa mia veniva messa a soqquadro senza che facessi nulla per impedirlo, nelle case degli altri sono sempre dovuta entrare in punta di piedi, talvolta travestendomi addirittura da funambola. Il mio desiderio di occupare uno spazio che non mi vedesse con i piedi a mezz'aria, ha dovuto sempre fare i conti con l'esigenza, o forse il dovere, di diventare un'acrobata, ma quest'ultimo non ha mai vinto nonostante gli sforzi. Nonostante in equilibrio su di un filo non ci sapessi stare, tutti hanno sempre preteso che lo facessi ed io ho cercato di accontentarli pur di restare in uno spazio che appartenesse a qualcun altro, anche se paradossalmente non lo occupavo mai. Ho provato ad imparare nonostante abbia messo sempre tutti a sedere nelle prime file e quando cadevo ci riprovavo nonostante sentissi di non avere abbastanza forza nelle gambe, nonostante l'imbarazzo nel sentirmi schernita da un pubblico di funamboli di professione. 
Ho cercato di spiegare che il funambolismo non fa per me, ma sono stata sempre rimproverata e cacciata perché nessuno mi ha mai creduta, "Tutti ci sanno stare", mi dicevano, "perché non dovresti farlo anche tu?"
Mi sono convinta che avessi io qualcosa che non andasse, pensavo di non avere abbastanza forza nelle braccia e nelle gambe, né sufficiente concentrazione che me lo permettesse. Ho tentato di fare pratica, ma inevitabilmente cadevo e nel rialzarmi non desideravo mai di risalire sul filo, ma di strisciare sporcandomi di tutto ciò che ci fosse sul pavimento, mantenendo gli occhi aperti nonostante vi entrasse la polvere. 
Ma la verità è che ci vedo così tanta poca naturalezza e spontaneità, così poca umanità in questa pratica per me a tratti perversa, che non posso rivedermici. Non ho mai voluto che qualcuno dovesse alzare lo sguardo per vedermi in perfetto equilibrio, né io ho voluto mai realmente abbassarlo nonostante il suo sguardo tra la folla non riuscissi sempre ad incrociarlo. Non l'ho mai voluto eppure è accaduto, nonostante non ne ricorda il motivo ed il perché non abbia scelto una strada diversa prima di posizionarmi con i piedi a mezz'aria. 
Si innesca un meccanismo perverso nella mentalità di un funambolo: sta lì facendosi forza nelle gambe cercando di rimanere in equilibrio su di un filo, attento ad attraversarlo tutto per più di una volta, non occupando alcun volume, accaparrandosi gli sguardi della folla seduta sugli spalti che lo fissa dal basso, acclamandolo come grande artista. Ma io vorrei alzarmi tra la folla ed invece di acclamare chi paventa quest'arte che sembra contraddire i limiti umani, spezzare quel filo e vederlo scaraventato sul suolo. Vorrei vederlo strisciare o alzarsi mantenendosi in equilibrio con i piedi sul pavimento e nel constatare la sua mancata propensione dirgli: questa è la vera natura dell'essere umano, perché non dovresti farlo anche tu?

giovedì 14 marzo 2013

Fino ad innamorarci.

Facciamo come quelli che guardano attraverso il finestrino di un treno in corsa, potendone a mala pena ammirare la bellezza dei paesaggi, indicandoli con un dito attraverso i vetri sporchi del vagone, quel dito che abbasseremo quando man mano il nostro sguardo sarà lontano da quell'immagine, venendo irreprensibilmente catapultato su quella matassa di mattoni posti in malo modo l'uno sull'altro, senza forma, né odore, né voce, perché è esattamente lì che ogni volta ci fermiamo, in stazioni desolate che non offrono ampio spazio all'immaginazione. Saremo uno fra i tanti passeggeri, non gli unici, mai i primi ad accomodarsi, solo qualche volta gli ultimi a scendere. Parleremo con chiunque scelga di sedersi di fianco o probabilmente con nessuno, mentre la nostra mente potrà essere trasportata sull'onda dell' inconscia quanto irrealizzabile fantasia di voler far spuntare freschi germogli tra mattoni di una stazione ove nessuno passerebbe, nemmeno per caso, ad innaffiarli. Lasceremo che la nostra fervida immaginazione ci conduca all'ombra di un cipresso, in una tiepida giornata di primavera, ritagliando per noi due uno spazio che abbia l'odore del caffè o della spremuta di un'aranciata fresca e come voce il cinguettio degli uccelli, non privandoci di volare, ma nemmeno di sostare e dire ciò che siamo, così su due piedi, invece di invidiare chi per strada si tiene per mano, significando che ciò che si dovevano dire, per poi passeggiare in quel modo così vicini, già l'hanno pronunciato, in un tempo prossimo o remoto, quel tempo che noi non riusciamo mai a catturare, perché non sembra mai il momento, perché il nostro treno è pronto a ripartire. La fantasia sembra essere l'unico spazio in cui il vento non ci scompiglia i capelli nascondendoci il viso, in cui il tempo non ci è avverso ma nostro fedele alleato, in cui non serve zuccherare il caffè o temporeggiare con la cannuccia immersa nella spremuta, in cui il silenzio non innalza mura incomprensibili ma unisce in parole che non vanno necessariamente scandite una ad una, in cui l'unica premura è l'incrocio di sguardi senza mai abbassarli per timore di scoprirsi troppo, in cui possiamo rimuovere l'immagine di innamorati che passeggiano come a ricordarci quanto siamo infelici nel nostro essere bugiardi.

Ma cosa succederebbe se mancasse quella fantasia a tratti armoniosa, sotto altri aspetti perversa, ma fingessimo di ritrovarci in essa ricreando tutto senza tralasciare alcun dettaglio?
Come se il tempo non fosse una priorità, non un alibi alle nostre menzogne, come se le nuvole avessero già la nostra forma, gli uccelli la nostra voce, l'aria il nostro profumo, parleremo fino ad innamorarci, forse. 
Ma nella nostra vulnerabilità ogni cosa sembrerà renderci schiavi. Anche la fantasia.

La borsa: il contenuto dell'anima.

Una volta qualcuno ha detto che gli occhi sono lo specchio dell'anima. 
Ma senza paventare la presunzione di essere un giorno definita quel Qualcuno che abbia inteso modernizzare questo detto antichissimo, credo che almeno il contenuto di un' anima femminile lo si possa scorgere semplicemente guardando in una borsa. Almeno per me è esattamente così. E' incredibile quanta gente tema di guardarsi dentro, mentre invece io ho più paura di guardare dentro la mia borsa che dentro di me, quasi come se in effetti non trapelasse alcuna differenza evidente, ma come se le due cose si compenetrassero divenendo l'una la metafora dell'altra.
Perchè in effetti ho così tante borse nell'armadio, di qualsiasi dimensione, forma e colore, ma utilizzo ordinariamente sempre la stessa perchè l'unica più capiente, l'unica in grado di reggere il peso, l'unica di cui non senta mai l'esigenza di riordinarne il contenuto sebbene sarebbe opportuno. 
La mia borsa è veramente un disastro. Spesso dimentico di gettare le buste di tabacco oramai finite, lasciandole nella tasca laterale, in cui si nasconde quella appena comprata che inevitabilmente non riesco mai a trovare. Ad uno dei due lati casca sempre il borsellino, su cui si poggiano un libro, un'agenda, una penna che ovviamente non scrive ma non so perché dimentico sempre di gettarla via. Se sono fortunata mi capita di pescare anche vecchi biglietti del treno, nonostante non lo prenda da mesi, la cartina della metropolitana di Londra che sembra voglia farsi pescare proprio per far rivivere i ricordi che in certi momenti vorrei opacizzare ed ammutolire, addirittura biglietti dell'aereo, pacchetti di fazzolettini sparsi qua e là che penso sempre di non avere dietro quando qualcuno cortesemente me li richiede. 
In effetti c'è tanto disordine, la necessità di ordinare, ma la noia al solo pensiero. C'è tanto passato che spesso nasconde il presente, lasciando al futuro uno spazio irrisorio, quasi inesistente. C'è tutto, ma spesso manca l'essenziale, perchè in effetti spesso dimentico il cellulare e le chiavi di casa sulla scrivania portandomi dietro ciò che non serve e che pesa, come un libro, un'agenda, una penna che però non scrive.  
E allora, avvalorando questa mia modernizzazione, potrei dire che la mia anima pesa, è ingombrante, come se ci fosse tutto ma niente che sappia di necessario, disordinata, immersa in un passato faticando a godere il presente ed angosciata al pensiero del futuro. Un po' come quando in preda alla confusione dei pensieri, lascio loro il tempo necessario per dispiegarsi, di trovare da sé il giusto ordine senza esserne l'autrice. 
Ma la verità è che in questo disordine io ritrovo quella che sono. Non temo di svuotare la borsa, non temo di guardare avanti, temo soltanto che nella schematizzazione e nell'ordine artificiale e non naturale degli eventi io non riesca più a trovare me stessa ed i miei reali voleri. 
La mia paura più grande è quella di guardare così oltre da disperdere i miei ricordi in un'aria rarefatta senza mai più sentirli, senza che non riescano mai più a strapparmi un sorriso nel loro riviverli, pescando tra l'accozzaglia una cartina della metro di Londra, un biglietto aereo, una penna che non scrive che non tolgo perchè me l'hanno regalata e se non me la portassi dietro avrei paura di perderla. 
Ho paura di perdere i ricordi, ma non di accostarli al presente e ad un ignoto futuro, per questo li porto dietro, come se in un'apparente inutilità si nascondesse l'essenzialità, la mia.

lunedì 11 marzo 2013

E mentre mi affannavo, scoprivo ...

E mentre mi affannavo nella ricerca di una strada di cui mi imponevo la precisa definizione nonché la percorrenza, come se volessi scrivere pagine di concetti matematici esatti e dimostrabili pronti per la rilegatura, ho scoperto una scorciatoia, un sentiero impreciso ma immacolato, non una strada larga, ma un viottolo celato tra le siepi, che mi ha indotto a scrivere pagine e pagine di pensieri non dimostrabili, quelle inesattezze che nella profondità di un'anima trovano i loro contorni più esatti. 
E mentre mi affannavo per il mio inconscio desiderio di mettere radici, ho scoperto di non esserne capace con chiunque, ho scoperto che le mie radici si sarebbero rinsecchite lasciandomi così morire, ho scoperto che non voglio chiunque, né chiunque vorrò mai esserlo, perché nel non mettere radici c'è più vita che nell'imporsi ostinatamente di farlo con chiunque. 
E mentre mi affannavo nella ricerca di stimoli e di appagamento di bisogni insoddisfatti, ho scoperto di farlo ogni giorno a piccole dosi, usufruendo soltanto di me stessa.
E mentre mi affannavo nell'immaginare quante possibili vite avrei potuto dipingere sulla mia tela, ho scoperto di poterlo fare bastandomi un pennello e pochi colori da combinare per poterne creare naturalmente altri.
E mentre mi affannavo nel voler leggere gli altri, intanto scrivevo me stessa.
E mentre mi affannavo precipitando inesorabilmente in storie impossibili, ho scoperto che si trattava semplicemente di storie, tutte possibili quanto giuste nella loro impossibilità ed ingiustizia morale, perché mi hanno indotto giustamente a decifrare quante possibilità esistano di essere felicemente amati, quante possibilità di reinventarsi possano essere partorite, quante possibilità io abbia di comprendere chi desideri diventare, inducendomi a catalogare in comparti ciò a cui mi avvicinerei e ciò da cui mi distanzierei, essendo tutti strumenti definitori e selettivi nella loro estraneità.
E mentre mi affannavo nel decidere dove andare, avevo optato intanto per un dove enigmatico, inesplorato ma meraviglioso, un luogo in cui puoi rifugiarti quando vorrai senza pagare alcun biglietto, standoci per sempre pur spostandoti da città in città, quel luogo in cui puoi immaginare colline sinuose, vaste praterie, prati fioriti, campagne dorate senza scrutarne l'orizzonte, quel dove che si chiama semplicemente anima.
E mentre mi affannavo nel ritagliarmi un piccolo spazio, sentendomi spesso una toppa di cotone ricucita maldestramente su di un tessuto di seta, dentro quest'anima cucivo ed imbastivo abiti dalle tinte pastello e dai tessuti più pregiati.
E mentre mi affannavo, perdendomi in grandi progetti, raccoglievo briciole. 
Oggi le briciole le chiamo possibilità, ciò che da' senso alla fatica, le uniche che nella loro irrisoria compattezza nascondono un'immaginaria grandezza. 
Ed è proprio mentre mi affannavo, che alla fine lo scoprivo.

sabato 9 marzo 2013

Le persone speciali.

Esistono persone che hanno scritto "ti voglio bene" sulla fronte, nel luccichio dei loro occhi, sul palmo della mano e sulle labbra anche senza pronunciarlo. E lo scriveresti per loro anche tu ovunque, su ogni parte del tuo corpo, lo grideresti al mondo scandendo il suono delle vocali ed accentuando quelle delle consonanti in modo da perforare i loro timpani. Esistono persone a cui riservi inispiegabilmente il miglior posto nel tuo cuore, e sai che loro fanno lo stesso perché te lo ripetono, perché una volta ti hanno definito "il loro cuore". Esistono persone con cui puoi sederti al tavolino e alla domanda "Come stai?" potrai rifiutarti di raccontare la convenzionale storiella del "tutto bene grazie...", cominciando a raccontare come un fiume in piena la tua vita in quel dato frangente, cosa vada e cosa manca, perché è come se ti sentissi costretta a non mentire, nella convinzione che sia seduto al tavolo chi avrà orecchie per ascoltare e comprendere. Esistono persone che sanno senza chiedere, illuminandoti il viso quando pronunceranno "L'ho sempre saputo". Esistono persone che avrai la sensazione di tenere sempre per mano nonostante non siano presenti fisicamente ogni santo giorno della tua vita, ma la loro anima sarà impressa come un' incisione eterna nel tuo cuore. E ti chiederai da quando quella persona sia entrata a far parte della tua vita e la risposta sarà da sempre, perché non ne ricordi il momento esatto, ma c'era quando eri solo una bambina e ti facevi tante domande sul mondo adulto non ottenendo le risposte spesso che speravi, c'era quando cadevi e nel rialzarti ti tendeva la mano pulendoti il ginocchio dal fango, talvolta aggredendoti a voce alta dietro la quale si celava un'incredibile tenerezza, lo star male anche per te, gridando perché voleva che non sbagliassi più. C'era quando pian piano sbocciavo per diventare una piccola donna, c'era quando donna lo sono diventata. C'eravamo, insieme, quando la vita ci toglieva le nostre certezze, ci attanagliava con incomprensibili dubbi, ci faceva assaporare la ruvidità dell'asfalto di una strada ignota ove l'unica certezza siamo stati sempre noi, insieme anche quando eravamo lontani. Qualcuno la definisce "chimica" ma non credo che rapporti così abbiano a che fare con equazioni matematiche, non c'è alcun senso logico nel nostro stare insieme, non esistono domande né la frenesia di dover rispondere, solo meraviglia quando ci si incontra anche per caso, sorrisi che restano stampati sul tuo viso quando si pensa. Esistono persone che saranno sempre il tuo articolo determinativo, il primo, al di là di tutto, sempre il migliore, perché ti ha sempre consentito di comportarti come avresti voluto con tanti uomini entrati ed usciti dal retro dalla tua vita, spiegando le tue ali senza timore di esser te stessa. Ed il paradosso è che non solo me lo ha permesso in maniera naturale, non me l'ha mai recriminato, ed è sempre restato. Qualcuno vorrà sapere se l'amicizia tra uomo e donna sia possibile, molti ne dubitano, ma io dico di sì, perché l'ho conosciuta e la percepisco sulla mia pelle. E' qualcosa che va oltre il semplice affetto, oltre anche all'amore, è  quella amicizia che si sposa con l'aggettivo speciale, ma che ti sembra così riduttivo definirlo solo tale che sei costretta ad aggiungerci un "Più", accentuando il suono della prima consonante, come se la "u" fosse di una profondità immensa. Ho la sensazione ogni volta che mi prenda per mano e mi dica "andiamo a casa" ovunque e con chiunque altro io stia, ho la sensazione di non voler cercare più nessun'altra strada perchè quella mi basta.
Lui è casa, è Amicizia, è quel di più che pochi comprendono ma ci basta che lo capiamo noi.

giovedì 7 marzo 2013

Un cuore da Oscar.

Il cuore è il nostro organo migliore. Vivrà nel tiepido venticello primaverile annusando il fresco profumo dei primi germogli, suderà sotto il sole rovente di una calda estate senza bisogno di dissetarsi, osserverà le foglie oramai ingiallite cadere ai piedi di un albero oramai spoglio, sopporterà il gelo invernale intervallato da tempeste e nevicate senza mai smettere per questo di battere. E si meraviglierà ogni volta all'inizio di una nuova primavera, anche se l'inverno sia durato più del dovuto, anche se la primavera sembrerà a tratti precaria e fugace. Il cuore parla anche quando pensiamo non lo faccia. Lui parla di continuo senza mai stancarsi, anche quando fingiamo di non ascoltarlo, come la voce dell'uomo in metropolitana che va come un disco rotto. E potremo fingere di non ascoltarlo, potremo credere nel suo silenzio, ma dopo un po' esploderà nel suo essere dirompente, come se si fosse fatto a brandelli, ma un cuore può sempre essere riparato. Il cuore chiede sempre grazie per le persone ed i luoghi che diverranno suoi ospiti, offrirà loro il cibo più buono con il servizio migliore, anche quando quei luoghi diverranno ricordi sbiaditi, quelle persone clienti che dopo un po' sgattaioleranno via, talvolta senza pagare il conto. E si scusa per il ritardo, nonostante sia stato sempre lì, in quella concavità protetto tra le costole e lo sterno, a sussurrarci qualcosa che eravamo soltanto noi a non voler capire, a ritardare la scelta che ci avrebbe posto nudi, muti ed in silenzio al cospetto del cuore cui è impossibile desistere.
Il mio cuore ha sempre fatto entrare chi pensavo valesse la pena far entrare, senza mai nemmeno pagare l'ingresso, e non rimpiango le scelte sbagliate, nè gli uomini che ho selezionato in modo sbagliato, nè le circostanze ed i luoghi forse sbagliati. Non rimpiango ciò che il cuore ha sempre scelto di darmi per poi categoricamente togliermi, perchè in questo costante movimento ci ho visto sempre tanta vita, paradossalmente incostante nella sua costanza, ma pur sempre una vita, mai sbagliata ma la più giusta nonostante i demeriti. Ed è per questo che al mio cuore ho sempre permesso di abituarsi. Si è abituato agli incontri fugaci, all'inesorabilità di un tempo che ha visto molti scappare, alle amarezze e alle delusioni, agli arrivederci tramutatisi in addii. Così tutto quello che di buono c'è stato, è come se avessi avuto la sensazione di essermelo sudato e mi è sembrato di una bellezza enorme anche un sorriso, un abbraccio, un ti voglio bene disinteressato. L'ho fatto abituare a tutto questo senza permettergli mai di stancarsi. 
Vorrei che si stancasse soltanto quando sarò vecchia, dopo aver innaffiato le piante della passione ed averle riposte al sole per lasciarle maturare, dopo aver medicato il cuore tante volte senza mai pensare che valesse la pena stare fermi ma ogni volta ripartire, dopo aver fatto piovere burrascosamente su un cuore che poi avrà visto o solo immaginato l'arcobaleno. Vorrei che il mio cuore si stancasse soltanto dopo aver reso la mia vita un film da Oscar, così che potrò consegnare la statuetta direttamente nelle sue mani e sussurrargli in quell'istante che potrà allora anche stancarsi. Il cuore ha sempre deciso al mio posto ed io gliel'ho lasciato fare perchè sono sempre stata convinta che quello fosse il mio reale volere. 
Ma sul quando stancarsi voglio decidere io, è l'unica richiesta per cui voglio impormi. E fin quando continuerà a battere, non pretendo soltanto di essere viva, ma voglio sentirmici.

mercoledì 6 marzo 2013

Le strade del cuore.

Tracci una strada con il gessetto, con estrema cura, attenta a che non si spezzi. Poi ad un certo punto del tuo percorso il gessetto si spezza ma continui con insolita ostinazione ad usarne ciò che resta, limitandoti a tracciare il percorso con dei trattini che man mano sembreranno sempre meno visibili. Oramai consumato, il gessetto lo getti nella cesta dei sogni dimenticati e dei desideri inconsci. E allora sei spaesata, perchè non sai più come tracciare il tuo percorso, ma ti dirigi lo stesso verso i viottoli di quella strada che sembra al momento un passaggio obbligato, di cui pian piano scorgi, tra steppa ed arbusti spogli, finalmente la fine. Ma quando sarai giunta al traguardo dovrai immaginare una nuova strada, dove per arbusti spogli e steppa non ci sarà più spazio, dove vorresti che il tuo sguardo si perda nella natura incontaminata ove è possibile scorgere ruscelli di tanto in tanto e qualche bel fiore variopinto da cogliere qua e là. Ed in giornate come queste, in cui fuori piove, decidi di aprire quella cesta in cui hai gettato il tuo gessetto consumato facendo in modo che dentro ci resti soltanto quello, lasciando che la superficie della cesta si bagni, ma non anche i sogni che non vuoi dimenticare, i desideri che vuoi finalmente palesare e la grinta che vuoi impiegare per qualcosa che piace. Ti accorgi che solo i passaggi obbligati necessitano di gessetti per tracciare un percorso in cui altrimenti perderesti il senso dell'orientamento. Ma ci sono le strade del cuore per cui basta aprire una cesta e lasciare che il sogno ed il desiderio spicchino il volo attraverso la forza del vento che si mischia con una grinta che poco sa di obbligato, ma molto più di naturale, perchè sei in fondo spontaneamente te stessa, e allora non ci sarà bisogno di alcuna penna, matita o gessetto con cui tratteggiare un percorso, ma sarà il cuore a guidarti come se conoscessi con intrepida meraviglia ogni contorno di quel paesaggio in cui si ritaglia la tua strada, come se già fosse riflesso nei tuoi occhi senza nemmeno esserti mai  cimentata. Le ragioni del cuore non conoscono alcun perchè, se, ma o può darsi, non sentono il fallimento di chi comunque decide di provarci, non possono essere ingabbiate né tratteggiate nè definite entro schemi minimizzanti rischiando di stigmatizzare anche le passioni. Le ragioni del cuore sono quelle e basta, inutile spiegarle, le possiamo soltanto aprire e lasciarle volare come rondini alla ricerca del loro posto caldo in un inizio di primavera, quasi come se dicessero "Vai!" . Ascoltarsi e seguire le ragioni del cuore senza farsi troppe domande può aprire infinite possibilità ed è questo l'indice del maggior cambiamento che per te devi pretendere. 
Aprirsi possibilità non significa vincere per forza, ma solo non provarci mettendo al tuo cuore un bavaglio è indice di sconfitta, perchè perdi non solo la possibilità di riuscirci, ma soprattutto la possibilità di essere te stessa con un cuore che batte e che ti fa sentire viva ovunque sceglierà di condurti.

martedì 5 marzo 2013

Ho perso il conto.

Ci sono mattine in cui ti svegli e nonostante il cinguettio degli uccellini sul davanzale, l'aria è fresca, non sembra essere una di quelle giornate che ti fanno pregustare la primavera, ma quest'aria fresca rigenera la mente e rinfresca l'epidermide. E' strano come io riesca a tollerare questo freddo più di quello delle persone.
Ci sono giornate che ti portano il conto delle persone incrociate nella tua vita che oggi hai perso, non avendo la benché minima idea di dove siano e con chi, non conoscendo alcun dettaglio della loro vita che è proseguita dopo essere usciti dalla tua, o forse non entrandoci mai.
E sono tanti, più di cento, o forse il doppio o probabilmente mille.
Non so il numero esatto, oramai ho perso il conto, o probabilmente è inutile mettersi a contare, perché in effetti alla lista se ne aggiungeranno ancora molti. Sono così tanti che spesso mi capita di non ricordare nemmeno i loro volti, il loro modo di parlare, addirittura i loro nomi. Quando sono fortunata c'è una fantasia collettiva nel pronunciare la frase "un giorno ci rivedremo, ci possiamo sempre vedere quando vogliamo", ma questo giorno sembra così lontano, questo sempre così irreale, da estirpare il senso da quel ci rivedremo perché in fondo non lo si vuole abbastanza, se ne può fare anche a meno. Tutti parlano di un perdersi e ritrovarsi, ed anch'io lo faccio talvolta per convincermene, ma la verità è che in fondo ho conosciuto solo un perdersi, o un perdersi due volte intervallato da un ritrovarsi fugace. Ma il conto di chi ha scelto di restare non lo perdo mai, perché sono così poche che delle loro vite conosco quasi ogni dettaglio, potrei farne una lista con i loro nomi e cognomi ed attaccarla al frigo come un post it.
Questo conto resta intatto, non aumenta, a limite diminuisce, allora contare le persone che restano sarebbe senza dubbio più semplice. Ed è per questo che non comprendo perché io debba svegliarmi una mattina qualunque pensando di voler portare il conto di chi ho perso strada facendo, quando probabilmente per contare una sola giornata non basterebbe.
Forse perché chi sceglie di restare lo fa in silenzio, con estrema naturalezza, senza pretendere che tu te ne accorga. O forse perché il più delle volte non era importante chi andasse via, ma che indipendentemente da chi fosse, non avesse scelto di restare, allungando la mia lista interminabile.

In questi casi avrei preferito imparare a contare solo fino a dieci, o forse avrei voluto imparare ad ascoltare il silenzio di chi resta senza attendere il rumore di una porta che si chiude per far uscire il prossimo. C'è ancora tempo per imparare, ma spesso sento di aver perso il conto anche di quello. E allora basta, non conto più.

domenica 3 marzo 2013

Solo tre domande.

Per i miei genitori la domenica è il giorno del Signore, è il giorno in cui il pranzo non comincia se non dopo aver fatto la preghiera, ed io allora per far contenti i miei cattolicissimi genitori mi faccio anche il segno della croce, ma ogni tanto faccio presente che quel rituale in fondo non lo sento pienamente, che per me è in fondo una pura formalità di cui poter fare a meno perchè non ha senso recitare una preghiera per poi proseguire il pranzo in silenzio o, a limite, pur di colmarlo, dando voce ad inutili battibecchi e frasi polemiche che dopo qualche minuto sfociano sempre in quel silenzio che poco sa di rassicurante, molto più di incapacità di volersi conoscere attraverso il confronto. Preferirei che si iniziasse il pranzo con domande del tipo: "Come ti senti oggi?Hai dormito bene?Nella tua vita cosa vuoi fare?" e non perchè io muoia dal desiderio di dare risposte a questi interrogativi, perchè probabilmente risponderei che in fondo mi sento come un fiore che non riesce a sbocciare nonostante la primavera sia alle porte, che dormo a fatica e mi risveglio stanca, che nella mia vita sono riuscita a dare un quadro definito di ciò che non voglio fare, che ciò che desidero fare per definire chi in fondo voglio diventare forse lo so, ma non lo riesco a pronunciare, come se avessi la bocca piena facendone di questo il mio alibi, o probabilmente perchè tra i discorsi dell'uno e poi dell'altro sento che il mio turno deve ancora attendere. Non muoio dalla voglia di rispondere, ma muoio dalla voglia che qualcuno queste domande me le rivolga lo stesso, perchè ho un tremendo difetto: esprimermi a singhiozzo, approfittare di domande per cacciare tutto fuori, come un boccone amaro difficile da digerire. Ma per molte persone che ignorano questo dettaglio, io forse appaio come una persona che poco dice di sé, una che tende a mettere paletti con chiunque e ovunque si trovi, che riesce a trascinare in pochi dentro il suo mondo, la maggior parte ne restano esclusi. In realtà vorrei dire tanto, i paletti li brucerei, farei entrare chiunque ne mostrasse il benché minimo desiderio se solo mi chiedesse di farlo, se solo me lo dimostrasse.
Ma oggi era domenica e c'era il rituale della preghiera, domani sarà lunedì e non ci sarà tempo, ricomincerà una nuova settimana e chiunque pranzerà ad un orario differente e sarà complicato riunirsi, chiunque riprenderà le proprie vite ritagliandoti uno spazio nei momenti di pausa con l'orologio alla mano.
Non è che non sopporti il recitare una preghiera prima di iniziare il pranzo domenicale, questa è semplicemente una metafora di quello che spesso accade nella mia vita, ma sono le formalità non sentite che mi affaticano, il trovarmi in contesti io cui non mi senta me stessa, in cui però mi sento costretta ad entrare per buon senso nonostante un senso non ce lo veda, nonostante non ci veda niente di buono ad esser presente con il corpo lasciando lo spirito piegato in dei cassetti a far compagnia alla tua biancheria intima, la propensione a rispettare sempre gli altri bistrattando me stessa rivelandosi in dei momenti un'indicibile tortura. Non credo che sia possibile abbattere le formalità, ma sono oramai stanca del tempo che mi viene detratto, preferirei di gran lunga un compromesso che non mi veda unica preda passiva degli eventi. Allora reciterò la preghiera la domenica, ascolterò i vostri problemi e sarò anche disposta ad aiutarvi, sarò spettatrice delle vostre formalità pur non calandomi in esse completamente, in cambio vorrei che mi rivolgeste solo tre domande: "Come ti senti oggi, come hai dormito, cosa vuoi fare nella tua vita?"