martedì 28 maggio 2013

Va tutto bene.

Esistono giorni così. Quei giorni in cui avverti la vicinanza della stagione estiva, ma il cielo è cupo e non lascia filtrare alcun raggio di sole. Quei giorni in cui avverti che la fine è vicina, ma intanto ti lasci consolare dall'idea che in fondo sebbene sia quasi alle porte essa non sia ancora arrivata a tirarti per la gola dicendo "Adesso sono qui e non mi puoi sfuggire!"
Giorni in cui ti senti di una pesantezza imbarazzante, di un'agonia lacerante, quei giorni in cui sei combattuta tra i tuoi pensieri e quelli degli altri in un eccessivo altruismo che vorresti spegnere gridando a tutti che sei stanca, che vuoi che il turno duri più di qualche minuto, magari un'intera giornata, per assaporare cosa significhi essere al centro di qualcosa e non un figurante nell'angolo del palcoscenico. Quei giorni in cui vorresti mettere un punto, uno soltanto, in cui vorresti capire, in cui vorresti che il telefono squillasse e qualcuno dall'altra parte con voce calda ti dicesse "ma che hai?come stai?" e tu con inguaribile spontaneità per una volta ti sentissi di rispondere che non va esattamente tutto bene come vorresti che andasse, che non riesci a colpire con un pennarello indelebile il foglio per posizionare un punto, che tutti pensano che sia un'entità robotica che va a gettone ma in realtà sei stanca, sei molto stanca. E forse finirei la telefonata piangendo. Piangendo non di tristezza, ma quasi come fosse un gesto di liberazione.
Ma lo so che non accade. Non accade mai, perché in realtà mi piace dire a chiunque me lo chieda di non preoccuparsi, perché sto bene, va tutto esattamente come vorrei, anche se oggi mi sento come una di quelle giornate alle porte della stagione estiva, cristallizzata in un cielo cupo in cui nessun raggio di sole riesce a filtrare, in cui vorresti comprendere, ma ancora non ti è chiaro cosa né come.
Allora forse meglio restare in silenzio, perché va tutto bene, forse.

domenica 26 maggio 2013

Stare bene.

Talvolta tento di spiegare i miei silenzi e il mio ostinato tentativo di comprendere di fronte gli errori della gente. Ci ho impiegato del tempo per rispondere nell'unico modo più plausibile: non sono in fondo anche io un essere umano, e non è vero che forse tutti gli esseri umani sbagliano, prima o poi? 
Ho imparato a giudicare meno ed ascoltare di più per evitare che gli errori mi trafiggessero e mi lasciassero sanguinare senza che potessi far nulla per frenarne il flusso. Perché l'errore è così: aspetta il perdono, e se non arriva fa male di più, fa male due volte, ma non è un dolore condivisibile, è un dolore lancinante che trascina nel baratro soltanto te. Allora forse è questo il segreto per star meglio, o almeno conosco soltanto questi come possibili antidoti: l'ascolto, la comprensione ed un perdono silenzioso. Non significa farsi scivolare addosso ogni cosa, fingerci ciechi e sordi al cospetto di qualcosa che vorrebbe invece palesarsi e far così tanto rumore al punto da traforarci i timpani. Tutto questo ha solo un significato: dare il giusto peso alle cose. Soltanto così forse saremo in grado di trovare la più giusta delle dimensioni: stare bene. 

Stare bene non è come andare in bicicletta. Lo dovremo imparare anche se nessuno sarà disposto ad insegnarcelo, ed è quello che ogni giorno cerco di fare in silenzio, ascoltando, comprendendo, perdonando.

sabato 25 maggio 2013

A voi Malala, a noi Barbara D'Urso.


Mentre nella nostra Penisola, classificata come parte della zona civilizzata dell'emisfero, nascevano casi come quello della "farfalla inguinale di Belen", il caso Ruby, disgregazioni politiche motivate da celate ma verosimili corruzioni, mentre balzava agli onori della cronaca il caso "Scazzi" confezionato come fosse un indovinello destinato al pubblico "Chi ha ucciso Sara Scazzi?Lo zio, la zia o la cugina, manda un messaggio al 4888 inserendo la risposta, in palio moltissimi premi", nell'altra parte dell'emisfero, precisamente in Pakistan, esente dalla benché minima ombra di giustizia o civiltà che dir si voglia, si discuteva di un editto emesso dal regime talebano che vietava il diritto allo studio delle donne pakistane. 
Mentre nella nostra Penisola esiste Barbara D' Urso, che si autodefinisce giornalista, facendo del cattivo gusto un'arma vincente per accalappiare i telespettatori con fatti di cronaca, alternati con del becero gossip, dati in pasto all'opinione pubblica disinformata, allestendo bancarelle del torrone gestite da chi fa dell' "opinionista" un mestiere degno di nota, dando merito al concetto di democrazia secondo cui "chiunque, anche nella totale ignoranza, può esprimere un parere che diventa giudizio", ignorando di quanta forza persuasiva abbia il sistema televisivo sulla popolazione media che non usufruisce di altri mezzi per il proprio diritto all'informazione, nel distretto dello Swat, nel nord del Pakistan, c'era una ragazzina, Malala Yousafzai, che dall'età di 11 anni scriveva un blog per la BBC americana, in cui documentava il regime dei telebani pakistani, contrario ai diritti delle donne, nonché la loro occupazione del distretto dello Swat. Esempio di donna, nonostante la giovane età, che ha fatto della sua voce il più persuasivo strumento di comunicazione, in un Paese come il Pakistan, in cui è stata etichettata come "simbolo degli infedeli e dell'oscenità", in cui le donne non rivestono alcun ruolo sociale se non quello di strumento per soddisfare il sesso più forte. Esempio di comunicazione pericolosa e tagliente, in grado di destabilizzare, perchè veritiera, da intimorire il regime talebano al punto da organizzare un attentato in cui Malala è rimasta ferita gravemente, salvata a seguito di cure mediche specializzate a Londra e candidata al Premio Nobel per la Pace. La giovane vive attualmente in Inghilterra dove ha la possibilità di studiare, ma ha fondato un'associazione a tutela delle sue coetanee connazionali, vittime ancora oggi nel nostro millennio, di uno dei peggiori soprusi destinati al gentil sesso. 
Allora mentre in Pakistan si lotta per il riconoscimento di un diritto di studio per le donne, in Italia si fa di tutto per sotterrarlo, nonostante lo si abbia ottenuto già da un pezzo. 
Mentre in Italia abbiamo Barbara D'Urso, in Pakistan hanno Malala.
Allora sono un po' confusa. Se l'Italia è riconosciuto come uno di quei Paesi dell'emisfero "civilizzato" perché ricevere lezioni di civiltà da una giovane pakistana? Donne come Malala, disposte a sacrificarsi per scuotere le coscienze, le cui parole scritte su di un blog muovono il mondo intero più di un paio di gambe o di un seno rifatto, possono nascere soltanto in Pakistan, un paese in cui si vive in condizioni sociali ai limiti della comprensibilità umana? Il prezzo della civilizzazione italiana consta di Barbara D'Urso, Maria De Filippi, Nicole Minetti e Flavia Vento?
Onore a te, Malala, perché in un Paese in cui non potevi indossare vestiti colorati a scuola, in cui il tuo diritto allo studio viene bandito, la tua voce è stata esempio della civiltà più indiscussa degli ultimi tempi. Onore a te, Malala, che all'età di tredici anni, sei già una donna in grado di dimostrare la sua forza. Onore a te, Malala, che non hai avuto paura, né di parlare, né di morire. Onore a te, perché hai dimostrato che in un Paese non civilizzato si può nascere con un senso di civiltà ben maggiore di chi nasce in un Paese dell'emisfero "civilizzato".
Quindi a voi Malala, a noi Barbara D'Urso. A voi la forza della comunicazione, a noi il degrado della disinformazione.

" Ho la mia età, non ho botulini, non mi sono rifatta niente e le tette sono le mie. Perché dovrei nasconderla? Fa bene anche alle altre donne. Per il momento ho fortuna, Poi magari ci incontriamo tra due anni, bluffo sull'età, ho le bocce rifatte, sono tutta bloccata con du' labbroni così... E allora l'autorizzo a darmi della cretina. " (Sette, 27 maggio 2010)
Barbara D'Urso

"I don't mind if I have to sit on the floor at school. All I want is an education and I'm afraid of no one."
M. Y.


















mercoledì 22 maggio 2013

Un'immagine di felicità.

Non so se la felicità abbia una forma, un odore, un colore, un nome, un volto. Forse non ne ha o probabilmente esiste per ciascuno di noi un'immagine che compenetri tutto ciò che ci fa bene, un'immagine che vada a cristallizzare il nostro inconscio concetto di felicità.
Ed io di queste immagini ne ho sperimentate tante, molte fugaci, estreme, un nido di emozioni forti che mi hanno fatto salire il cuore in gola per poi essere costretta ad ingoiarlo come un boccone amaro che avresti volentieri invece sputato. Ma poi ho pensato a quale potesse essere un'immagine in grado di penetrarti come un oggetto che non avresti avuto più desiderio di espellere, un'immagine calda, equilibrata, dove non ci sarebbe stato spazio per quel che sa di trasgressivo o di estremamente accattivante, ma al contrario ci sarebbe stato spazio per i ti voglio bene, i sorrisi, gli abbracci, le parole sussurrate o urlate a squarciagola, che mi avrebbero fatto sentire parte di qualcosa che non avrei mai voluto sputare perché parte di quella zona di vita dove ci si incontra per sentirsi meno soli. E oggi, più matura e consapevole di ciò che desidero, non credo di aver sempre sbagliato rotta, ma le tante rotte sbagliate mi hanno forse condotto nella direzione che oggi sento più giusta, perché in fondo più vera.
E se pensassi ad un'immagine di felicità penserei a me in una libreria a tirare il mio libro da uno scaffale per annusare il fresco profumo della carta su cui l'inchiostro si impregna in una serie concatenata di pensieri che in fondo non sono altro che ciò che sentivo di comunicare in un dato momento della mia vita, perché invece di restare in silenzio ho preferito scrivere. O potrei pensare a me su di una spiaggia, alle sei del pomeriggio, avendo di fronte un mare calmo in cui il Sole sta per immergersi per preparare al tramonto, un fresco venticello che sembri quasi bagnare la pelle e sfogliare le pagine di un libro che ti è accanto velocemente, offrendoti un senso di sollievo, di sana tranquillità, di te come se fossi infinito. La mia felicità avrebbe anche forse il volto delle persone nei cui confronti provo un affetto inimmaginabile, anche se non lo dico quasi mai, anche se non lo ripeto tutti i giorni. E nella mia immagine di felicità li vorrei tutti insieme, anche quelli che tra di loro non hanno legami, perché forse l'essenza della felicità è racchiusa in una delle parole più belle: insieme. 
Ma forse la verità è che pensiamo di dare definizioni ad ogni cosa, immaginiamo la felicità come un progetto che si realizzi, fresca come un venticello che bacia l'epidermide in un tardo pomeriggio d'estate, con il volto delle persone a noi più care. Immaginiamo che la vera felicità risieda nell'autentica amicizia o qualcuno pensa nel vero amore, per questo ostinato tentativo di dare definizioni diverse a ciò che in fondo esprime un'unico concetto che si estrinseca in diverse forme: l'amore è una forma di amicizia, come l'amicizia è una forma d'amore. Allora non è vero che forse basta dire che tutto questo è felicità? Non è forse vero che possiamo esserlo, anche a piccole dosi, ogni singolo giorno della nostra vita?

lunedì 20 maggio 2013

Scelte di vita.

Se è vero che la vita è fatta di scelte, scegliamo sempre noi chi diventare, partendo dal presupposto che stesse scelte significano stessi errori.
Possiamo scegliere di rischiare o essere codardi.
Possiamo scegliere di essere sconfitti dalla paura o di vincerla.
Possiamo scegliere di star seduti in salotto a guardare le porte chiuse alle nostre spalle o scegliere di alzarci per aprirne altre, in un qualche altro angolo freddo della casa che potrebbe generare un lieve tepore tale da riscaldarci la pelle.
Possiamo scegliere di credere nelle cose belle o farci cullare dall'onda della disillusione.
Possiamo scegliere di perdonare o vivere nel rimpianto.
Possiamo scegliere di ascoltare e di entrare silenziosamente attraverso le fessure nelle vite altrui oppure chiuderci nei nostri silenzi non permettendo a nessuno di entrare né dando a noi la medesima possibilità.
Possiamo scegliere di pensare a ciò che sarebbe stato ma non è accaduto o a quello che potrebbe invece accadere.
Possiamo scegliere di ergerci su di un piedistallo, programmando con attenzione ogni conseguenza di un possibile gesto, imprigionati in quegli schemi che bistrattano il senso di libertà che ci avvicinerebbe alla nostra intima indole, oppure possiamo scegliere di scendere, senza che prevalga alcun programma, senza farci risucchiare da alcuno schema, agendo come solo il cuore comanda, sentendoci in fondo più liberi perché più vicini a quello che siamo.
Possiamo scegliere di essere maturi o credere ancora di diventare l'altra metà della mela di qualcuno.
Possiamo scegliere di essere uomini o bambini, donne o femminucce. 
Possiamo scegliere di restare sulla riva, arrivando a bagnarci soltanto i piedi, o scegliere di tuffarci, bagnandoci completamente, senza pensare a quando sarà il momento giusto per asciugarci.
Possiamo scegliere di vivere o soltanto di esistere. 
Scegliamo tutto noi, ed è questo che dobbiamo capire. Ed anche se le persone sembrino non apprezzare o forse poco intenti nel comprendere, io ho scelto di fare scelte diverse. Ho scelto di rischiare, di non avere paura, di cercare di aprire porte senza timore di doverle richiudere un giorno, di credere che qualcosa di bello sia ancora possibile, di perdonare quando occorre, di entrare nelle vite degli altri almeno quanto nella mia, di scendere dal piedistallo, di ascoltare di più il cuore, di tuffarmi nel mare della vita, di essere finalmente più matura. Ho scelto semplicemente di essere donna, perché ho capito che ero soltanto io a dover prendere questa decisione, senza poterla delegare a nessuno, tanto meno far scegliere alla vita al mio posto.

sabato 18 maggio 2013

Tua per sempre.

Spesso ciò che serbiamo dentro necessita di prendere voce. Lo dobbiamo sussurrare oppure urlare, ma quando non riusciamo a fare nessuna delle due cose, sarà talvolta proprio lui a raggiungerci nei sogni, quasi come se ti dicesse "Non puoi respingermi, perché io sono qui".
Ed io ho provato a respingerti tante volte in questi anni, sperando che tu non mi cercassi in nessuna delle possibili forme in cui avresti potuto farti trovare, perché in fondo quando te ne sei andato non hai pensato a nessuno, non hai pensato nemmeno a me, anche se in fondo non riesco a comprendere perché avresti dovuto farlo. Ed è per questo che a volte vorrei dirti di lasciarmi stare, perché forse soltanto se lo facessi sarei in grado di vivere due vite, la mia ed anche la tua. Ma ogni tanto ti insinui dentro di me, pensando di farlo silenziosamente ed invece fai rumore. Sì non immagini il rumore. Un rumore destabilizzante che richiama ricordi che vorrei cancellare, ma tu me li riproponi anche se non avrei voglia di sfogliarli come un album di fotografie, costringendomi a vivere con una mancanza per cui non ho pianto come avrei dovuto, ma che ogni giorno mi ha divorato sino a creare una voragine in cui costantemente mi ci butto dentro faticando a risalire. Vorrei dirti tante cose ma la prima che mi viene in mente è che ti voglio bene ma non voglio essere come te. Ti voglio bene ma ci dobbiamo dividere, anche nei sogni, come in effetti hai scelto tu di fare in questa vita terrena. Perché esistono momenti nella vita in cui l'unica liberazione reale deriva dalla parola basta. E adesso dico basta io, come quando sei costretto ad abbandonare qualcuno con le lacrime agli occhi per intraprendere una strada che ti conduca alla serenità, alla vita piena perché palpabile. Che cosa mi hai insegnato se non che la vita può essere più amara dell'inchiostro, se non che le persone ad un certo punto decidono di andarsene e tu senza farti domande come un mulo devi ubbidire al loro volere, che non c'è scelta alla frustrazione, che nemmeno l'amore può salvarti. Hai voluto insegnarmi tutto questo quando ero ancora troppo piccola per sopportare una colpa così grande, ma mi sono fidata e mi sono distrutta tra le paure di un'amarezza certa, come certi sarebbero stati gli abbandoni, nonché certa la mancanza d'amore che non salva di certo le vite delle persone. Ma se posso essere sincera, io questo non volevo conoscerlo, avrei voluto non diventare grande così in fretta e godermi l'ingenua spensieratezza dei miei anni.
Però adesso ti chiedo soltanto di farmi vivere un po', di non prendertela se non ti voglio più come insegnante come facevamo quando eri ancora con me, perché tu adesso non ci sei più, ma io voglio esserci. Forse un giorno ci rincontreremo, ma allora vorrò essere io ad insegnarti qualcosa, tutto quello che avresti potuto conoscere ma hai scelto di ignorare, che la vita può essere meravigliosa se cerchiamo anche il dolce invece di sottostare soltanto a ciò che ci sembra amaro, che le persone se ne vanno ma c'è chi decide di restare se non ci facciamo prendere dalla paura, che possiamo scegliere di dire basta alla frustrazione lasciandoci cullare dall'amore in ogni sua forma, quell'amore che in fondo salva chiunque non abbia paura di viverlo.
Ti voglio bene ma è giunta l'ora di dividerci.

Tua per sempre, anche se non ci sono stata sempre.

Scusa il ritardo ma prima o poi ciò che non diciamo cerca voce, ed io conosco soltanto questa come possibile voce.


venerdì 17 maggio 2013

Cos'è l'infinito?

Ho un collana che porto sempre al collo ed un bracciale che ho sempre al polso con il simbolo dell'infinito: per molti simile ad un numero otto disteso, ma forse più propriamente un insieme di punti di cui non si conosce l'esatta direzione, che convergono tutti in un unico punto, dove si nasce e allo stesso tempo si muore, o dove si muore per poi rinascere ancora.
Oggi mi guardavo allo specchio e ho pensato a cosa fosse in fondo quest'entità astratta, se potesse avere un altro nome, una forma, un odore che non fosse quello dei fumi che si confondono nell'aria rarefatta di una grande metropoli, se addirittura potesse avere anche un volto. 
Ho pensato che l'infinito potesse avere il colore di un cielo terso, la profondità di un oceano, la freschezza di una leggera brezza che ti bacia la pelle per poi penetrarti silenziosamente dentro attraverso i pori sin dentro le ossa, il profumo delle viole, la libertà del vento, la dolcezza del miele, la tenerezza di un bambino che piange perché vuole la sua mamma, la passione del cuore, il battito d'ali di una farfalla ma al contempo la maestosità di un'aquila, la grandezza di una metropoli che serba in seno le tradizioni folcloristiche di un piccolo villaggio di campagna dove si prepara ancora il pane in casa che sa di una quotidianità che abbaglia per la sua semplicità. Ho pensato che l'infinito potesse avere il volto di un uomo afflitto nei suoi mille perché, in ginocchio per le continue sconfitte, che muore per poi rinascere in quel punto di convergenza in cui decide di non domandarsi più niente lasciandosi trasportare dalla dolce melodia di un cuore che gli farà aprire nuove porte dimenticandosi di quelle chiuse alle sue spalle, meravigliandosi ogni volta che alzerà le sue ginocchia da quel ruvido asfalto umido. Ho pensato ai rapporti che ti riscaldano, come fossi una rondine che migra in primavera alla ricerca di posti caldi, ai sorrisi e agli abbracci che sussurrano un ti voglio bene che, nonostante la finitezza dei termini racchiusi tra vocali e consonanti, sembrerà infinito. Ho pensato ad una strada larga che vorrai percorrere a marce basse per goderti la bellezza di ogni dettaglio, dal rosa dell'alba che si perde nell'azzurro di una mattinata soleggiata, al rosso di un tramonto che farà spazio all'imbrunire di una notte stellata. Una di quelle strade che percorrerai ad occhi chiusi, senza sapere dove ti condurrà, dando fiducia al cuore che intanto ascolti e segui non incantevole costanza.
Ho pensato anche alle cose che iniziano per poi finire, vedendoci nel mezzo qualcosa che rassomigliasse all'infinito. Perché sebbene ci sia un inizio ed una fine per ogni cosa, ciò che c'è al centro può chiamarsi infinito. Perché forse l'infinito ce lo portiamo dentro, perché forse in base alla definizione che proporremo per quest'entità misteriosa, potremo decidere noi stessi di esserlo, perdendoci nel mare della bellezza più preziosa con chi sceglierà di essere infinito.

giovedì 16 maggio 2013

Rapporti umani.

Se mi domandassero che cosa fra tutte considero la più difficile da affrontare in questa vita, io risponderei : i rapporti umani.
C'è un'innata bellezza che profuma di spontaneità ma che al contempo si inasprisce di paura, quella paura che ti interroga sul chi, sul come, sul quando e sul perché a cui talvolta basta rispondere nel modo più naturale, semplicemente "E' così". E parlo di tutti i rapporti, da quelli che viaggiano in sordina a quelli che i timpani li corrodono diventando un rumore assordante o la sinfonia più bella mai ascoltata. Considero i rapporti umani ciò che più conti realmente, nonostante talvolta risultino difficili da instaurare e da gestire per la ricerca spasmodica di certezze che ci divora, nonostante la certosina pazienza che è necessario impiegare per capire il mondo dell'altro, per entrarci lentamente, attraverso le fessure di una finestra socchiusa che ci chiede di entrare silenziosamente come formiche. Ed in effetti non c'è qualcosa che offra maggiore pienezza dei legami, nemmeno la parmigiana di melanzane di mia nonna riesce a riempirmi di più, per questo ho sempre investito tutto ciò che possedevo. Ci ho investito cuore, anima, polmoni, corpo, mente, sempre, anche in quei legami risultati poi sbagliati, non pentendomene mai, perché preferivo entrare e sbattere la fronte sullo spigolo di un qualche mobile del salotto su cui non riuscivo a riporre la mano, piuttosto che attendere sull'uscio ed immaginare cosa sarebbe accaduto se non mi fossi fermata. Non credo che le persone, particolarmente quelle che si fanno tante domande, siano in grado di affermare con fermezza la loro felicità, forse non è possibile stare bene nel vero senso del termine, ma è possibile stare meglio, ed i rapporti umani, di qualsiasi entità, aiutano proprio a questo.
Ma oggi ho capito che nonostante i rapporti umani siano di quanto più complicato possa esistere, ho estrapolato una regola, forse l'unica a dar merito al cuore che si tinge dei colori più belli perché autentici e mai mescolati a caso e frettolosamente. Credo fermamente in una cosa, cioè che le persone vadano lasciate libere di scegliere, sempre, senza mai imporsi nella vita dell'altro ricordando ogni giorno cosa manchi o cosa ti aspetteresti: libere di accoglierti, di scoprirti, di aprire una finestra perché possa filtrare un raggio di sole attraverso i vetri, libere di farti conoscere gradatamente ogni angolo della casa, libere di sceglierti come l'ospite più gradito per poi chiederti di restare. Perché forse quando una persona è libera di scegliere e sceglie te nonostante avesse potuto incanalarsi verso altre direzioni, in amicizia come in amore e come tutto ciò che si definisca legame, sceglie il tuo cuore, la tua anima, il tuo polmone, il tuo corpo, la tua mente, ciò che in fondo hai investito e sentirai che comunque andrà a finire, in quel dato frangente, la tua vita sarà piena, sarà piena di una meravigliosa autenticità.
E' questo il mio senso della vita, quello che profuma di un'amorevole libertà che sa di veritiera bellezza.

martedì 14 maggio 2013

Se fossi un giorno della settimana ...

Se fossi un giorno della settimana sarei probabilmente il giovedì.
Perché il giovedì è quel giorno che spezza la settimana, prima del weekend ma molto distante dal lunedì. Insomma uno di quei giorni che inculca un'insolita tranquillità perché giunge prima del caos e degli appuntamenti del weekend osservati come fossero un sacro rituale, uno di quelli in cui non ti viene chiesto di iniziare niente, chi inizierebbe qualcosa di giovedì? Credo nessuno. Di giovedì non si comincia nulla, ma è probabile che si riparino cose, perché in fondo è un giorno così, che funge da anello di congiunzione tra un inizio e una fine, in cui il più delle volte non si ha niente da fare, e allora ci si dedica a quelle cose per cui in altri giorni non ci sarebbe tempo a sufficienza. Ma in fondo il giovedì, per questo suo modo di essere, risulta forse il giorno più importante, quello indispensabile perché le cose possano procedere con cautela, quello che porta i conti e che alla fine diventa il più pieno, il più pieno di tutti.
Ed io mi sento esattamente come lui. Spezzo gli equilibri con un'innata maestria spesso non dandomi tempo per curare il mio, ma quando me ne accorgo li riparo. Sì, io riparo cose. Sembra quasi il mio mestiere. Riparo stati d'animo, vuoti, emozioni, spesso ho quasi la sensazione che mi si chieda tra le righe di riparare le vite degli altri. Ed io acconsento, non riesco a disubbidire. Talvolta le ho riparate anche a discapito della mia, come se l'equilibrio degli altri fosse stato per me sempre più importante, un po' come quando rassetti casa per mettere ordine nonostante il tuo animo resti a soqquadro.
Mi colloco nel mezzo, come un mendicante rivestito di stracci che chiede l'elemosina al centro di una stazione, lontano dal caos, dalle formalità, dalla folla che passa veloce e che rumoreggia, seduto lì in un angolo, nel suo silenzio, senza mai pretendere, ma sperando in fondo che qualche passante si accorga di lui ed infili una moneta nel cappello capovolto come fosse una carezza non trattenuta.
Mi sento come un giovedì, mi sento un prima ma in fondo anche un dopo che si combinano neutralizzandosi diventando in fondo niente. Mi sento come un giovedì, un anello di congiunzione, un bilanciere, ma in fondo una portatrice sana di tranquillità, che credo sia anch'essa una forma d'amore, forse la più importante, perché parte da te senza attraversare altri canali.
Mi piace il giovedì perchè spesso riesce a conservare la laboriosità del lunedì, ad anticipare l'entusiasmo del venerdì, nonostante spesso ci si scontrerà con la stanchezza della domenica ancora lontana. Mi piace perchè sembra un giorno messo lì ed invece è fondamentale perché unisce.
Mi piacciono le persone così, quelle che sono un giovedì.

venerdì 10 maggio 2013

Danza danza danza!

Ci sono persone che muoiono tutti i giorni, ovunque, e con chiunque si trovino.
Muoiono quando scelgono di non sentire, di non guardare ciò che è sotto il proprio naso girando il capo dall'altra parte, di non esprimersi per urlare soltanto quando oramai è tardi.
Muoiono quando non scelgono, quando affogano invece di inebriarsi del profumo della loro passione, quando mentono agli altri ed in primis al loro cuore. 
Le persone muoiono quando non ascoltano, quando sbraitano invece di piangere, quando ad un come stai rispondono che va tutto bene mentre dentro muoiono, muoiono di un dolore incontenibile.
Muore chi spegne l'interruttore delle emozioni, chi prova a gestirle come se volesse porre argini ad un fiume in piena che a breve potrebbe straripare, chi le minimizza perchè ha paura, ha paura di sentire.
Muore ogni giorno chi guarda le porte chiuse, invece di guardare avanti nell'attesa di aprirne altre.
Muore chi non ama, chi non gode della bellezza di un tramonto, di una passeggiata all'ombra dei cipressi con del fresco venticello che ti scompiglia i capelli, di una risata, di un gesto semplice che vuole dire semplicemente "ti voglio bene". 
E muore chi si nutre della vita degli altri, standola a guardare come se fosse un film da Oscar senza pensare mai di tuffarvisi dentro, magari di emularla. Muore chi si siede a guardare gli altri correre.
E muore chi guarda a ciò che non c'è e che non potrà forse mai esserci, invece di stare attento a quel poco che si possiede in cui potrebbe celarsi il tesoro più grande.
Muore chi non rischia, chi si incatena alle barriere partorite da un cervello divoratore di umanità e ne fa il motore della propria esistenza.
Certe persone muoiono quando non vogliono scoprire, perchè non c'è tempo, non è il momento, lasciandosi sbranare da un tempo malevolo che distrugge i momenti, rendendoli i nostri peggiori carnefici.

Non so perchè certe persone scelgono di morire. Forse perché vivere non ti risparmia nulla, il dolce ti apparirà talvolta dolcissimo, ma l'amaro talvolta così amaro da non riuscire a deglutire.
Eppure io ho deciso che non voglio morire. Preferisco essere risucchiata in una danza tra viventi, che affogare con chi sceglie di morire senza mai esser stata abbagliata da un raggio di sole. 
E se a qualcuno venisse in mente di chiedere "Ma cosa devo fare allora?" risponderei come Murakami nel suo libro "Dance dance dance":

 Danzare, continuare a danzare, finché ci sarà musica. Capisci quello che ti sto dicendo?Devi danzare. Danzare senza mai fermarti. Non devi chiederti perchè. Non devi pensare a cosa significa. Il significato non importa, non c'entra. Se ti metti a pensare a queste cose, i tuoi piedi si bloccheranno. E una volta che saranno bloccati, io non potrò fare più niente per te. Tutti i tuoi collegamenti si interromperanno. Finiranno per sempre. E tu potrai vivere solo in questo mondo. Ne sarai improvvisamente risucchiato. Perciò i tuoi piedi non dovranno mai fermarsi. Anche se quello che fai può sembrarti stupido, non pensarci. Un passo dopo l'altro, continua a danzare. E tutto ciò che era irrigidito e bloccato piano piano comincerà a sciogliersi. Per certe cose non è ancora troppo tardi. I mezzi che hai, usali tutti. Fai del tuo meglio. Non devi avere paura di nulla. Adesso sei stanco, stanco e spaventato. Capita a tutti. Ti sembra sbagliato. Per questo i tuoi piedi si bloccano. Danzare è l'unica possibilità. Devi danzare, e danzare bene, tanto bene da lasciare tutti a bocca aperta. Se lo fai, forse anch'io potrò darti una mano. Finché c'è musica, devi danzare!



mercoledì 8 maggio 2013

Tante virgole, nessun punto.

E' che a volte vorrei mettere un punto. Uno soltanto. E invece mi ritrovo in balia delle virgole, dei punti interrogativi che non trovano risposte, dei puntini sospensivi che come una danza tribale mi avvolgono come fosse la cosa più divertente eppure mai così angosciosa. Mi vorrei imputare come una bambina capricciosa che si accovaccia e dice "Adesso è il mio turno", ma inevitabilmente davanti a me passano tutti, e con loro in fondo anche io senza far rumore, in quel silenzio che per gli altri è assenza di parole, per me fa invece un rumore assordante. Vorrei urlare, è questo che vorrei fare. Però c'è il buon senso che me lo impedisce, e c'è la calma che devo perseguire per poter procedere come se tutto fosse esattamente al suo posto. Ma qual è questo posto e quali sono le cose che gli altri vedono in un ordine soltanto apparente? Non lo so.
Se fossi in grado di parlare le cose sarebbero più semplici. Invece mi perdo in un silenzio in cui annego senza che nessuno mi tenga la mano e mi dica "Sono qui". Ma la colpa non è di chi non lo fa, la colpa forse è la mia perché voglio fare soltanto quello che so fare: scrivere.
Scrivo, ma non parlo, perché non so parlare come scrivo.
E se nessuno mi rivolge domande, allora lo faccio io a questo punto e mi domando: cosa desideri?

Ho voglia di sentire sulla pelle il fresco venticello primaverile che come rugiada sembra bagnare l'epidermide ed offre un lieve senso di leggerezza. Ho voglia di una spiaggia, di un libro, del mare che ti ascolta, cui puoi dire ogni cosa senza mai farlo sentire pieno, perché è infinito. Ho voglia di punti fermi, quelli che sono lì ad aspettare te che smetti di piangere, quelli che ti chiedono poi di ridere perché tutto ritornerà al suo posto. Ho voglia di sentire le persone come se la loro voce fosse un eco della mia, di guardarli negli occhi per scrutarne la mia immagine riflessa. Ho voglia di dire basta alle mie paure. Ho voglia di vivere. Ho voglia di tenerezza. Ho voglia di prevedibilità e normalità, ora dopo essermi scontrata con l'imprevedibilità che pensavo fosse il motore della vita, con anomalie che credevo ne fossero le logiche conseguenze. Ho voglia di quelle cose che sanno di abitudine, che ho sempre negato perché pensavo potessero spegnerti, mentre in fondo ciò che sapeva di opposto gradatamente mi ha bruciato senza che me ne rendessi conto. Ho voglia di libertà, quella del cuore e della mente, quella che ti fa dire "Basta, adesso comincio io."

giovedì 2 maggio 2013

Forse le persone aspettano di morire.

Aspettiamo di invecchiare per diventare più maturi.
Aspettiamo di finire gli studi per dedicarci ai nostri interessi ed alimentare le nostre passioni che intanto appassiscono preda di un tempo che inesorabilmente scorre.
Aspettiamo di sbagliare per dire "Non lo farò più!"
Aspettiamo anche lo sbaglio successivo, e quello che verrà ancora dopo, e ancora, e ancora, per ammettere che nella nostra costanza si nasconde forse un'incapacità nel vincere.
Aspettiamo le feste comandate per abbracciare i nostri cari e rivolgerci frasi d'affetto che in altre circostanze non saremo in grado di pronunciare, perché Natale o Capodanno ce lo impongono, anche se giungono in un normalissimo martedì o mercoledì.
Aspettiamo sull'uscio della porta che le persone ritornino, nonostante se ne siano andate senza offrirci troppe spiegazioni, lasciandoci accovacciati dietro quella porta che in fondo resterà chiusa.
Aspettiamo i momenti giusti. Aspettiamo il momento giusto per vendicarci, per avanzare, per vincere, per invitare qualcuno, anche per innamorarci. Pianifichiamo un'intera esistenza, ordinando a noi stessi quando sia il momento giusto per una sana solitudine che vedrà sgombro il cuore, quando sia invece quello per far entrare qualcuno. Aspettiamo che trascorra del tempo sufficiente per sanare le ferite di una fresca delusione e se ci sarà qualcuno disposto forse ad aiutarci o ad alleggerire il peso noi ci nasconderemo perchè in fondo non è il momento giusto, quello lo stiamo ancora aspettando nonostante spesso ignoreremo che forma possa avere.
Che sciocco a volte l'essere umano. Aspetta invece di vivere, programma invece di buttarsi a capofitto in una vita che non regala niente due volte. Aspetta ed intanto la vita gli passa di fianco, non comprendendo che in fondo i treni passano una sola volta, e se il cuore comincia a tremare seppur leggermente al suo passaggio, forse tanto vale salirci.
Allora forse non dobbiamo aspettare niente, piuttosto dovremmo cominciare a vivere tutto.
Non dobbiamo aspettare le rughe per dispensare maturità, forse allora sarà tardi. Dobbiamo chiudere i libri ed innaffiare quelle passioni che albergano dentro di noi prima di apparire come morti sebbene apparentemente viventi. Dobbiamo forse essere fieri degli sbagli, perché in loro si nasconderà tanta vita, quella che si porrà come insegnante nonostante ci sentiremo spesso impreparati, si celerà la vittoria di chi non si arrende e prosegue continuando a sperare. Dovremmo pronunciare frasi cariche di affetto almeno due o tre volte a settimana, anche se non sia Natale, Pasqua o Capodanno. Dobbiamo alzarci da dietro quella porta chiusa e guardarci intorno per aprirne altre che potrebbero rivelarsi sorprendentemente meravigliose. Dovremmo capire che non possiamo aspettare il momento giusto, perché lui non aspetta noi ed allora inevitabilmente finiremo per perderci nell'abisso delle paure e delle perseveranti insicurezze. Invece di tenere nel frigorifero il cuore aspettando di tirarlo fuori pianificando il come ed il quando, focalizzati sul chi. Caccialo quel cuore, non aspettare, prima che sia tardi, prima che quel treno ti passi di fianco a gran velocità e tu non riuscirai più a salirci. Caccialo adesso, prima che si congeli, ed urlalo, urlalo pure se vuoi. Ma cosa stai aspettando? Ho talvolta la sensazione che le persone aspettino di morire.