domenica 29 giugno 2014

Una corsa al parco.

Terminato il turno di lavoro, quando sono rientrata avrei voluto indossare tuta e scarpette per andare a correre nel parco che è ad appena 50 metri da casa mia, alla fine della strada. Avrei messo le cuffie e avrei pensato di essere più veloce del tempo che scorre e consuma, te e chi ti sta intorno. Avrei pensato che basta tenersi in forma per sentirsi meglio, quasi in pace con se stessi. Avrei annusato il profumo della pioggia che ancora bagnava l'asfalto. Avrei guardato il cielo, sarebbe stato rosa, di quelli che preannunciano un tramonto dolce, di quelli che guarderesti dalla finestra della tua stanza insieme a qualcuno, perché condividere qualcosa che sa di infinito utilizzando termini semplici quasi come fosse alla nostra portata, accorcia le distanze e ci fa sentire quasi perfetti, ad un passo dall'essere infiniti. Avrei voluto fare tante cose, alcune delle quali le farei tuttora se mi dicessero che morirei domani.

Quando ho aperto la porta di casa ogni intenzione è svanita. Come se aprendo quella porta e ritrovandomi tra buste zeppe di roba da portar via ed un piumone sul pavimento, avessi capito che sebbene avessi voluto correre, mi dovevo fermare. A volte credi di aver fatto abbastanza, di aver superato ostacoli che non pensavi di poter superare, di aver fatto sacrifici inumani, di aver toccato la maggior parte delle corde di questa vita così imprevedibile. Non sarà mai abbastanza. Ci sarà sempre altro, altro, e ancora altro. Per esempio oggi, quando ho varcato la porta di casa, la vita mi ha chiesto che dovevo dimostrare di crescere ancora un po', di essere più della donna che pensavo di essere diventata. Questa volta l'ho trovata pretenziosa, mi ha chiesto di essere forte come una donna che è in grado di attraversare da sola una tempesta, per approdare sulla terra ferma dopo settimane, ancora viva. Di comporre frasi semplici, composte da termini non troppo lunghi, così da essere compresi da tutti, come fanno i bambini. Mi ha chiesto di provare lo stesso senso di smarrimento che si prova quando sei adolescente, quando il tuo ragazzo ti lascia per sms, i tuoi genitori non ti lasciano vedere i tuoi amici, la tua insegnante ti dice che potresti fare di più. Mi ha chiesto di avere la stessa pazienza delle madri, la stessa dedizione che una moglie avrebbe verso suo marito, la stessa premura di una nonna verso un nipote. 

Eppure io nemmeno lo sapevo, che nella giornata di oggi, una qualunque domenica, la vita mi chiedesse di attraversare così velocemente tutte le fasi dell'essere donna. Quasi come mi chiedesse di correre, pur restando ferma a guardare quello che ero costretta a vedere, pur desiderando di andare via. 

E così ho capito che la vita ci mette alla prova, quando le va, e noi dobbiamo essere sempre pronti. Che dobbiamo passare fasi di lancinanti rimorsi per apprendere che invece saranno niente altro che rimpianti. Ho capito che la vita mi chiedeva in fondo l'unica cosa che ho sempre saputo fare con invidiabile maestria: riparare stati d'animo rotti, a discapito del mio, che intanto si sbriciola. Tenere al loro equilibrio, più che al mio. Perché in fondo è sempre stato così, nessuno mi ha mai chiesto di cambiare.

Ma oggi non ero pronta. Ero sola, e volevo correre. Volevo alzare gli occhi al cielo e vederlo rosa, stringermi al vento che intanto spazzava le foglie, per sentirmi ad un passo dall'essere infinita. Avrei voluto annusare il profumo dell'erba ancora bagnata. Pensare che non mi è dovuto attraversare tutte queste fasi così velocemente, tutte insieme, ma passo dopo passo. Avrei voluto ridere, ancora un po'.

giovedì 26 giugno 2014

Profumo di pioggia.

A volte si avverte l'esigenza di pulire casa, non con scopa e paletta, ma aprendo tutte le finestre, lasciando che l'aria passi, annusando il profumo della pioggia che ti entra dentro, fitta e silenziosa, senza che nemmeno faccia rumore con il suo solito tintinnio sull'asfalto.

E allora pensavo alle colpe e ai desideri, a quanto questo binomio fosse così imperfetto nella sua perfezione. A quanto il desiderio ci renda colpevoli, eppure così innocenti per il solo fatto di volerlo. Pensavo quanto costi cedervi, e quanto perdi se non lo fai. Pensavo se sia possibile avere colpe e non sentirsele come toppe cucite addosso. Se è possibile che il desiderio superi la colpa, al punto da diventare la priorità. Pensavo alla definizione da dare a chi é poco intrepido nel pensare che in fondo il desiderio può nascere da quello che qualcuno chiama istinto, io invece cuore, quel muscolo che vende pacchetti di felicità se imparassimo ad ascoltarlo, mai sensi di colpa.

E ho pensato che tutti abbiamo, nel corso del nostro anno, dei giorni "speciali", di quelli che vorresti non passassero mai, quegli stessi che invece vorresti volassero per fare più luce dentro di te. Quei giorni in cui nonostante le colpe, la tua leggerezza viene prima, il tuo sorriso è più importante, parlare diventa quasi più sano.

Quei giorni in cui delle persone, senza far troppo rumore, come schizzi di pioggia che bagnano i vetri delle finestre, il cui rumore é così lontano dall'essere percepito, entrano in casa e te la rassettano, come se lì dentro ci avessero sempre vissuto, ed invece è la prima volta che vi si accostano. Ti spostano mobili, rilegandoli in posti in cui non avresti mai pensato di farceli stare. Ti aprono finestre, quelle che tu per pigrizia avevi sempre lasciato chiuse. E ti parlano tanto, lasciandoti in silenzio ad ascoltare quello che in fondo pensi anche tu.

Ma in tutto questo spostare e cambiare, in realtà, non c'è niente che non avresti voluto fare anche tu. Solo che non lo facevi, perché ti avevano sempre detto che la posizione dei mobili era perfetta, che per aprire le finestre c'era troppo freddo, e allora tu acconsentivi, per pigrizia, o forse perché ti faceva bene credere che in fondo tutto era perfetto, nella sua visibile imperfezione.

Fin quando poi qualcuno ti ha chiesto: "Lo senti questo profumo di pioggia?"

Tu lo hai annusato, e ti piaciuto tanto da voler lasciare le tue finestre aperte, sempre, anche dopo che smetterà di piovere, anche oltre i tuoi "giorni speciali".

sabato 21 giugno 2014

Un giro in libreria.

Oggi sono entrata in una libreria per acquistare un libro di travel writing, come richiesto da uno degli insegnanti della mia scuola di giornalismo.

C'è qualcosa di assolutamente coinvolgente in posti come questi. Appena entri c'è un profumo di carta che ti si infila sin dentro le narici. Generalmente l'atmosfera appare cupa, ma suggestiva, come se le copertine dei libri fungessero da candele, di quelle che emanano una luce fioca, ma sufficiente. E non sono molto affollate.Se penso a quanti si professano lettori scaricando le versioni e-book, che poi è un po' come fare del sesso telefonico. Le intenzioni sono le stesse, ma è la forma a cambiare. Polpastrelli che non sfogliano pagine, narici che non annusano alcun profumo: che poi è come perdere parte del piacere.

Luoghi come questi esercitano su di me un forte ascendente, tale da pensare di volerli acquistare tutti, fin quando con il profumo ancora nel naso di pagine di un qualche libro di cui abbia cominciato a leggere la trama sul retro di copertina, il mio raziocinio mi ferma. Ammetto di esserci entrata talvolta solo per percepirne l'odore e quella calma quasi fittizia, pur uscendo a mani vuote. Oggi, per esempio, avrei voluto comprarne una decina, ne stavo per pagare tre, ma alla fine ne ho acquistati soltanto due. Uno dei due mi era stato richiesto, l'altro mi ha attratto per il titolo e l'originalità dei contenuti: "Underground Overground - A passenger's history of the Tube", un racconto ironico su tutto ciò che c'è da sapere sulla metropolitana londinese, attraverso il viaggio dell'autore/protagonista Andrew Martin.

E' come se avessi trovato due luoghi incastrati, l'uno nell'altro. La metropolitana è un luogo di passaggio. E' uno di quei pochi luoghi, forse l'unico rimasto sulla faccia della terra, dove è possibile raccogliere tutte insieme in appena sessanta secondi milioni di vite che raggiungono diverse destinazioni. L'impiegato, il medico, il cameriere, lo studente, l'insegnante, l'artista. Corrono, scansandosi e sfiorandosi i gomiti, restano incastrati nello stesso vagone per dei minuti, e scrutando il passeggero che hanno di fianco o di fronte del tipo ma-che-cappello-indossa, figo-quel-tipo, a-saperlo-prendevo-il-giornale-all'entrata-anche-io, curiosano nelle vite altrui senza nemmeno sospettarlo, in silenzio, tra il rumore dei binari e la voce che annuncia la fermata successiva.

Io adoro luoghi come questi, quelli che sono sentieri dell'anima senza che nemmeno te ne accorga. Quelli attraversati da milioni di vite, tutte diverse eppure simili, legati solo da un viaggio, o forse una destinazione. Quelli che ti fanno crescere la voglia di scoprire, ma con discrezione, senza far troppo rumore. Quelli che profumano di cose che ti piacciono, al punto da volerne riempire una vita intera. Quelli dove non c'è una luce che abbaglia, ma fioca al punto giusto, per potersi guardare solo perché lo si vuole, anche di nascosto. Quelli in cui entri anche solo per due minuti, anche per non acquistare niente, soltanto per il piacere di farlo.

Nei luoghi, come nelle persone, é per piacere che si entra. Per annusarne il profumo, seguirne la scia, assecondarne i desideri. Come se si prendesse la metropolitana con destinazione libreria.

mercoledì 18 giugno 2014

Vogliamo cose.

La verità è che vogliamo cose, senza darne una definizione precisa. 
Le vogliamo, e nello stesso istante ce ne allontaniamo, perché è più facile convincerci dell' inverosimilità del desiderio, piuttosto che dell'inadeguatezza nel rapportarci alle cose, agli eventi, alle persone.

Vogliamo diventare qualcuno, ma restiamo nel girone dei nessuno, aspettando che le opportunità ci si pongano di fronte, un po' come la manna dal cielo.

Vogliamo essere saggi, pur continuando a predicare il pregiudizio.

Vogliamo qualcuno, e continuiamo a raccontarci scuse. 

Vogliamo sentire, ma facciamo finta di non vedere.

Vogliamo scoprire, ma abbiamo paura di aprire la porta di casa.

Vogliamo l'amore, o forse, semplicemente qualcosa di più. Quello che va oltre un paio di gambe o un corpo tonico. Eppure sarà il primo e l'ultimo pensiero da cui ci lasceremo sfiorare.

Vogliamo esperienza, ma quando ci viene catapultata addosso singhiozziamo come bambini perché non la volevamo nella forma in cui ci si è presentata.

Vogliamo un futuro, senza mai seppellire il passato.

E vogliamo cose, la cui entità ci è ignota. Non riusciremo ad immaginarne il volto né la sua forma. 

Ma poi ho pensato che forse talvolta basta restare in silenzio. Quello racconta molto più di quanto saremo in grado di dire pronunciando frasi a caso. Dopo averlo ascoltato, basta seguirlo, senza porci limiti, senza paura. La vita è così meravigliosa perché può farti vivere cose inimmaginabili. Lo scegli tu, da che parte stare. Se vivere, o lasciarti morire.

domenica 15 giugno 2014

L'intimità della scrittura.

Quando sono rientrata dopo il lavoro, la casa era affollata. Mi sono accomodata per il pranzo che ho terminato esattamente dopo 15 minuti. Avrei voluto chiacchierare, nella mia lingua, ma mi sono limitata ad ascoltare distrattamente i discorsi che altri facevano a voce alta, in una lingua diversa dalla mia, che non parlo, ma che comunque capisco. Dopo soli cinque minuti la mia attenzione è calata, ed ho smesso di stargli dietro. E' da giorni che ho la sensazione che stia nascondendo qualcosa persino a me stessa, qualcosa che nemmeno mi va di dire, e che mi fa essere perennemente stanca. Lui mi ha accennato un vago "come va?che hai", nemmeno troppo deciso. Ed io ho naturalmente risposto come ogni donna in questi casi: "No, niente, va tutto bene". Nonostante addirittura un cieco potrebbe accorgersene, lui, come tutti gli uomini sulla faccia della terra, quella risposta se l'è fatta bastare. Come gli è bastato un abbraccio, nemmeno troppo stretto. Purtroppo gli uomini proprio non ce la fanno, è nella loro natura deludere senza accorgersene e non osservare i dettagli, nonostante siano visibili. Ma a me, oggi, andava bene così. Perché la verità è che non volevo dire nulla. Perché so che il problema sono io. E' la mia testa, che non si ferma mai, lavora elaborando pensieri continuamente, bizzarri o inusuali, piccoli o grandi, leciti o proibiti.

E allora non mi resta che fare i conti con loro, scrivendo. 

E' da giorni che ci penso e sono arrivata alla conclusione che sia più semplice conoscermi leggendo ciò che scrivo, che non vivermi quotidianamente. Alla scrittura lascio i pensieri più intimi, come se mi spogliassi di fronte ad un uomo che mi desidera senza vergogna e prima guardassi il mio corpo nudo allo specchio. Come se tra la vocalità e la scrittura ci fosse un imbuto che mantiene tutte le scorie: il liquido lo faccio scorrere tutto nel bicchiere che trabocca, le prime le lascio alla parola. Come quando dico "non fa niente", nonostante "ci sia qualcosa", "va tutto bene" mentre invece scriverei "perché non mi chiedi cosa c'è che non va, anche se non sarei in grado forse di rispondere", "vado via" quando invece scriverei "vorrei restare con te, ma é meglio di no". Ho pensato a quando mi è capitato di leggere libri di cui mi innamoravo. Perché era come se attraverso la concatenazione di parole, verbi, congiunzioni ed avverbi, riuscissi a dare un volto ai personaggi. Ogni tanto immaginavo di sentirli e addirittura di capire le loro vicende. Perché nella scrittura c'è qualcosa di sorprendente: riesce a tirare fuori il pensiero, ad elaborarlo scegliendo le parole giuste, limitando gli eccessi, negando qualsiasi filtro e nel rileggerlo, avrai la sensazione di guardare dall'esterno qualcosa che ti appartiene, sentendoci dentro, in un distacco che in fondo, è più sano. Ma ciò che amo di più della scrittura è che quasi inconsciamente ti costringe a dire la verità, come se guardassi la tua immagine riflessa a cui non puoi mentire.

Allora pensavo a chi mi vive tutti i giorni, pensando di conoscermi abbastanza, nonostante non legga niente di ciò che scriva. E a chi, non mi segue nel quotidiano, ma continua ad entrare nella mia intimità silenziosamente, guardandomi riporre i vestiti sulla sedia, senza alcuna pressione, lasciandomi fare. 

E ho pensato che al mondo esistono due tipologie di persone: quelle che si accontentano della crosta, dura o spinosa che sia, e quelli che invece vanno oltre ciò che il suono della parola vuol pronunciare, incuriositi da ciò che la superficie nasconde, entrandoti dentro, senza nemmeno far troppo rumore.

Non sei tu ad imporlo, sono loro a scegliere da che parte stare.


sabato 14 giugno 2014

I migliori insegnanti di noi stessi.

Sino all'età di dodici anni ho suonato il pianoforte. Successivamente ho smesso per problemi di salute, ma probabilmente se anche non li avessi avuti, sarei giunta al capolinea lo stesso. La mia insegnante ad un certo punto ti dava un out out: o l'università o il conservatorio. La mia passione non era tale da negarmi la possibilità di dare tutta me stessa in qualcosa su cui avevo pianificato il mio futuro: la laurea. Sapevo di non poter diventare lo Chopin del Sud d'Italia.

Generalmente ci esibivamo quasi ogni anno. Il saggio era per tutti l'occasione di mostrare ai genitori i propri profitti, così che loro potessero pensare che i soldi spesi avessero portato in fondo dei benefici. Come l'esame di maturità, l'ultimo esame all'università, un test, in cui ti confronti con altri, per capire la natura del tuo prodotto, e se tu sia all'altezza. In uno degli ultimi saggi la mia insegnante mi disse che non ero pronta abbastanza: a due settimane dall'esibizione non conoscevo a memoria alcun pezzo assegnatomi, ma pur servendomi dello spartito, non c'era fluidità alcuna nelle mia dita. Vedevo tutti così bravi, ed io mi sentivo l'ultima della fila. Ma quando ero piccola ero molto più audace, nel senso che provavo molto più frequentemente a sfidare le mie insicurezze. Mi sentivo inferiore, come adesso, ma allora provavo lo stesso a raggiungere il gradino più alto, senza alcuna pretesa di rimanere lì, quasi come se la mia insicurezza ed il sentirmi sempre meno degli altri fosse qualcosa di consolidato, o forse addirittura precostituito.

Allora per dimostrare di essere pronta cominciai l'allenamento pre-partita in casa. Mi sedetti sul seggiolino, aprii lo spartito e cominciai a suonare per ore. Non due, né tre né otto. Suonavo dalle 12 alle 16 ore al giorno. Mi fermavo soltanto per mangiare, andare in bagno e dormire. Così, per giorni. Il primo passo era raggiungere naturalezza e fluidità nelle dita, che all'inizio sembravano bastoncini, poi man mano cominciarono a sciogliersi. Successivamente cominciai l'opera di memorizzazione. Infine cercai di far combaciare entrambe le cose: suonare i miei pezzi senza l'aiuto dello spartito, come se fossero stati un prodotto della mia mente, con la stessa naturalezza e consapevolezza.

Tre giorni prima del saggio, mi presentai in casa della mia insegnante per le prove generali. Lei mi fece accomodare per cortesia, ma sapeva che di lì a poco avrebbe dovuto depennarmi dalla lista dei suoi studenti "prediletti". Aprì il mio quaderno. Per spronarmi, mi aveva detto di scrivere quali giorni e quante ore avessi studiato. Lesse che avevo studiato tutti i giorni, per un massimo di 18 ore. Fu impressionata da quei numeri, ma non abbastanza, fin quando non mi fece iniziare a suonare. Ricordo ancora il suo volto sbalordito e la voce carica di entusiasmo: "Antonia, sei stata così brava e così caparbia, che ti prometto che a saggio finito, salirò sul palco e ti farò pubblicamente i complimenti. Dirò a tutti i presenti quanto hai studiato per raggiungere questa perfezione". E così fu. Le sue parole mi diedero una carica indicibile, ma solo quando osservai, tra tutti, lo sguardo dei miei genitori, di orgoglio e tenerezza, che mi sentii veramente soddisfatta. Non l'avevo fatto per loro, né per la mia insegnante, né per superare i miei compagni. L'avevo fatto essenzialmente per me stessa, per capire fin dove mi potevo spingere soltanto affidandomi alle mie forze e capii che in fondo mi stavo ponendo, già a dodici anni, più limiti di quanti concretamente ne avessi. Realizzai che potevo trasformare le mie insicurezze nell'esatto opposto: sacrificarmi, andare oltre ciò che la mia mente dava forse per precostituito, per provare a salire sul podio.

Ed ancora oggi quando la paura e le ansie prendono il posto primario nel groviglio di pensieri che affollano la mia mente, ripenso a quel giorno, a quanto abbia sudato, a quanto il mio sedere sia diventato rosso per l'aderenza con la pelle che rivestiva il seggiolino, per quante ore abbia fatto pratica prima di vedere le mie dita sciogliersi, per poi sentire la melodia nella mente e combinare entrambe le cose per raggiungere infine quel risultato. Quando siamo piccoli diventiamo gli insegnanti di noi stessi, senza nemmeno rendercene conto. Ed è opportuno andare indietro nel tempo per ricordare a noi stessi che se ce l'abbiamo fatta allora, ce la possiamo fare anche adesso.

mercoledì 11 giugno 2014

Un giorno, così, senza preavviso.

Mentre tutti gli altri genitori portavano i loro figli al parco giochi, quando avevo cinque anni i miei mi portavano in parecchi ospedali. Ne ho visitati tanti, anche fuori regione. Ma nessun specialista ha alleviato la preoccupazione dei miei genitori, non venendo mai a capo di un referto concreto. Rigurgitavo tutto ciò che ingerivo, per più di un anno, ogni singolo giorno, non ricordo per quanto l'abbia fatto.
Mia madre e mia nonna pregavano tutti i giorni, ed io mi sentivo in colpa, già a cinque anni, delle loro sofferenze. Così tentavo strade alternative. Inventavo per esempio che la causa fosse il televisore posizionato nell'angolo della stanza. Era nero e durante la notte immaginavo fosse un mostro. Loro lo rimossero, ma ovviamente io continuavo a vomitare. Allora dissi che avevo cominciato da quando avevo visto Casper. Mi comprarono tante video cassette, di ogni singolo cartone animato esistente, che avesse una trama felice, così da dimenticare quel fantasmino che in fondo mi era simpatico, ma non potevo dirlo. Nemmeno quest'espediente diede l'esito sperato. Capendo che additare cause poco veritiere non avrebbe portato a nulla, tentai da sola di farmi passare questo "qualcosa", ignaro persino a me stessa. 
Dopo aver cenato, prima di addormentarmi, se mia madre era intenta a lavare i piatti in cucina, tentavo di associare ad ogni rumore di stoviglie un suono, così da immaginare una melodia che mi avrebbe cullata come una dolce ninna nanna. Nemmeno quest'esperimento ebbe successo. "Antonia, mi raccomando, non vomitare anche questo!" Più me lo ripetevano, e più puntualmente riaccadeva. Più sentivo quella retorica raccomandazione, più mi sentivo in colpa, perché sapevo che avrei disubbidito, pur contrariamente alla mia volontà, tanto che talvolta rassicuravo mia madre dicendole: "mamma, tranquilla, stasera non lo faccio", oppure, di fronte l'evidenza: "mamma, però sto guarendo, ho vomitato solo un poco".

Poi un bel giorno mi è passato. Così, senza preavviso. Non ricordo quel giorno, ma mi piace pensare che sia stato un giorno bellissimo, di quelli di sole pieno, all'inizio della primavera, magari domenica, l'unica giornata in cui ci si riposa ed i tuoi ti infilano in macchina per portarti al parco giochi. Quel giorno in cui forse ho inconsciamente capito che, nonostante avessimo cambiato casa, l'amore dei miei genitori non mi avrebbe mai lasciata sola, ovunque fossimo andati. Anche se prima vivevo nell'appartamento sopra quello dei miei nonni che mi hanno cresciuta e viziata come si fa con ogni primo nipote, loro ci sarebbero sempre stati, anche dopo la morte. 

E questo è stato a grandi linee lo schema che ho seguito per tutta la vita. Mi ammalo di qualcosa e mi sento in colpa verso me stessa, che sia innamoramento, insoddisfazione, delusione, solitudine. E mi invento scuse, che irrimediabilmente mi daranno torto. Allora cerco il modo per curarmi. Le provo tutte, dal lasciarmi condizionare dall'oroscopo alla meditazione alla vita sfrenata per non pensare. Ma basta poco per ricaderci. Faccio finta di far tesoro delle raccomandazioni, ma riesco a disubbidire con un'innata maestria. 
Poi un giorno mi sveglio, e tutto sembra un lontano ricordo che nemmeno mi sfiora. Così, senza preavviso, proprio quando ho smesso di cercare medicine, leggendone perfino il foglietto illustrativo. Ed il cielo mi sembra più blu, il sole più caldo, il lunedì mi sembra una domenica, ogni luogo un parco ricreativo. E' quel giorno in cui scopri che sei abbastanza grande da capire che non servono certezze ogni giorno, l'amore lo è già di per sé, e te lo fai bastare. Quello verso te stessa. Quello che ti concede ogni meraviglia.

martedì 3 giugno 2014

Scarpe in grado di portarti lontano.

E' un po' come quando indosso scarpe strette che non vedo l'ora di togliere, perché piuttosto preferisco camminare a piedi nudi. Come per le scarpe, così è per i rapporti. Non posso indossare scarpe troppo strette, di quelle che compri per entusiasmo, ma con cui a mala pena racimoli un'uscita che vedrà come epilogo un'occhio di pernice ad entrambe i mignoli, lasciandoti maledire quell'acquisto per tutto il tempo, donandoti un barlume di speranza il solo pensiero di tornare a casa e sfilartele.
Ma non posso indossare nemmeno quelle troppo grandi. Quelle che all'inizio sembreranno comode, ma a lungo andare lo saranno solo da ferma, perché quando comincerai a muoverti avrai come la sensazione che le suole calpestino l'asfalto prima di te, ed anche i tuoi piedi, ad un certo punto, vorranno sfilarsele per prendere una direzione diversa, perché i tempi non sono gli stessi, perché dentro c'è uno spazio così grande da farcene entrare almeno altri dieci. Sono come rapporti superficiali o di facciata, che come acqua attraverso un imbuto, troppo stretti o larghi che siano, troveranno il medesimo epilogo.
Le scarpe su misura sono invece come quelle persone in cui ti ci metti dentro e ti senti finito. Come quelle che percorrono la strada al tuo stesso ritmo, come quelle che bastano per riempire ogni spazio e tempo. Come quelle per cui non avrai magari nutrito alcun fervido entusiasmo all'inizio, ma che alla fine si riveleranno come l'acquisto migliore, perché te le porti con te, qualsiasi stagione si tratti, ovunque tu scelga di andare, senza che tu mai dica basta. 

Ed è così che vivo i miei rapporti, di qualsiasi natura si tratti. E non perché ami il concetto di connubio perfetto. Amo le persone che sanno essere così: come scarpe in grado di portarti lontano. 

Del resto, ho imparato a farne a meno.