mercoledì 25 marzo 2015

Una corsa dietro l'angolo

E così, senza che l'avessi progettato, ho cambiato le mie abitudini.
Sveglia molto presto, corsa per prendere il treno impigliando le braccia tra i fili degli auricolari mentre tento di infilare nelle tasche del cappotto tutto ciò che considero sia prioritario, nonostante ci impieghi puntualmente quindici minuti per afferrare qualcosa, facendo cascare tutte le altre. Posto accanto al finestrino, per aspettare quell'edificio che spunta in lontananza e che mi dice che sono arrivata, sempre nel momento in cui avrei voluto continuare la lettura del mio libro.

Condivido lo stress di uno ufficio ed un caffè, che non è come quello che prepara mia madre, ma è buono lo stesso. L'aroma mi penetra nelle narici e mi sveglia dal mio consueto assopimento mattutino. 
Ho abbandonato l'insana abitudine di procrastinare alla notte tutto ciò che non potevo fare di giorno, come rassettare, fare lavatrici, anche dedicarmi a me stessa. Adesso lo faccio dopo il lavoro, quando il sole non è alto, ma ancora emana luce, calando pian piano, rendendo il cielo rosa  e i primi fiori che sbocciano ancora più evidenti agli occhi dei passanti.

Ho preso l'abitudine di correre almeno un'ora al giorno, senza cianfrusaglie nelle tasche del cappotto, fili di auricolari che si intrecciano e borse pesanti. Lontana dai clacson, dalla frenesia della gente che spinge per prendere posto in un vagone, da quella parte di me che credeva di essere pigra e che non aveva mai ammesso che in realtà il non prendersi cura di sé costruendosi l'alibi del non aver tempo è la più alta forma di egoismo verso se stessi. Quando il sole sta per tramontare, le madri rincasano, i bambini tornano da scuola. Accanto al fiume, che riflette il rosa del cielo, pur essendo ancora coperto da un manto di foglie ingiallite.

Ogni tanto mi fermo su di una panchina per prendere fiato, mentre gli uomini del quartiere passeggiano con i propri cani ed i ragazzini giocano a calcetto in un campetto poco distante, riuscendone ad udire gli stramazzi. 

Ed è proprio l'altro giorno che ponendo lo sguardo in alto, perdendomi tra il rosa, il rosso e l'arancione di un cielo incredibilmente terso, ho realizzato quanto in fondo mi sia costata tutta questa normalità, ma quanto, in fondo, tutta quella vita precedente mi sia stata cara al punto da non farmi mai perdere l'entusiasmo e la voglia di proseguire, non essendomi mai lasciata andare al pensiero del non-ce-la-farò-mai. 

Ed è quella vita, che a tratti mi sembrava così ostinata nel suo tentativo di imporsi nonostante cercassi di scacciarla, quella che oggi sembra quasi appartenere ad un'altra persona tanto mi sembri distante, quella fatta di volti di plastica, di occhi che ogni tanto vorrei incrociare anche solo per capire se ne sia valsa la pena, di parole catturate dal vento e rese concimi per gli uccelli, di gesti che hai compiuto solo tu e che rifaresti, milioni di volte, perché giusti ora come allora, quella vita, proprio quella, mi ha  insegnato che le abitudini si distruggono, tutte.

Lo farai tu da sola, o sarà il tempo a farlo al tuo posto. 
E non è sempre detto che le precedenti siano state migliori o peggiori, ti abbiano resa una persona più o meno felice di quelle che seguiranno. 
Saranno uguali, nel momento della loro creazione, perché combaceranno esattamente al momento di vita e a quell'inevitabile passaggio di crescita, o piuttosto, a quello che sei diventata grazie a quelle che c'erano prima.

Ma c'è un'abitudine che è sempre attuale e non vorrò perdere mai: il dedicarmi a me stessa, sotto qualsiasi forma. 

Che significhi correre sotto un cielo rosa, leggere un libro accanto ai finestrini appannati di un vecchio vagone, smettere di pensare a come sarebbe andata a finire perchè se non inizia è già finita e decidere una nuova partenza. La tua.

martedì 3 marzo 2015

Come se scattassi una fotografia

Si avvicina la mia ventiseiesima primavera. La mia seconda a Londra.
L'altro giorno, mentre le mie ginocchia si poggiavano su di una incontaminata distesa di verde, il vento soffiava ed io riuscivo a sentirne il rumore ed anche il silenzio in quello stesso istante in cui frenava la  sua forza motrice, di rami, foglie ingiallite ed erba fresca.

Se fossi stata seduta ancora un po' credo mi avrebbe detto di restare. Ma io, dopo poco, sono andata via. Ma non ho voluto dimenticare.

Credo che questa città porti a farlo. Lascia che la tua mente renda i contorni di un passato appena trascorso sempre più sbiaditi sino a perderli in uno spazio buio dalle pareti di cartone. Lo fa, spesso senza volerlo, con le cose, le circostanze, le persone. Ce ne dimentichiamo, e andiamo avanti.

Io di questo ne ho sempre avuto il terrore. E non per quell'angusta paranoia di voler essere ancorata al passato, ma perchè ho sempre creduto che il verbo dimenticare serbasse in seno un significato triste, che non mi è mai appartenuto sino in fondo. Per questo non lo so fare.

Consapevole di questa mia incapacità e di quanto il farlo da parte di altri mi procurasse timore, ogni tanto ho bisogno di sentirmelo dire. Qualche volta, di fronte l'essere inerme di chi avevo di fronte, ho addirittura chiesto se ne stesse valutando l'eventualità. La risposta talvolta è stata mai, altre invece più sincera.  Perché in fondo noi che nutriamo questa fobia, siamo i primi a saperlo: dimenticare è umano, quasi quanto il non farlo.

Anche io ci ho provato. Ho cercato di plasmarmi alle consuetudini di questa città. Sono salita su un treno a vapore, promettendomi che per me non ci sarebbero state fermate se non l'ultima, quella che desideravo ardentemente ed il motivo stesso che mi ha portato a salire.

Ma non ci sono riuscita. Sono scesa, ad ogni stazione. E lì mi sono fermata. Per poco, per tanto o troppo. Vi ho ridisegnato i contorni, rendendoli simili a come li cercassi. A volte sono stati loro a rendere me simile a loro. Poi, ad un certo punto, sentivo il fischio di un treno in partenza. Scattavo una fotografia e la poggiavo tra le pagine del libro che stavo leggendo per rendere il viaggio meno noioso. Ogni tanto la guardavo. Prima di scendere alla fermata successiva e scattarne un'altra, quella che si sarebbe sovrapposta a quella precedente.

Non pensavo di averne avute così tante da guardare. Ma ancora lo faccio, ogni tanto, per paura di dimenticare.

Perché sono fatta così. Arrivo a destinazione ed intanto pianifico un'altra meta, un altro viaggio, tante altre fotografie.

Ma è la nostra vita, anche se rappresenta il nostro passato.

Io non mi dimentico, di niente. Salgo su un treno a vapore e lascio che il paesaggio cambi attraverso i vetri di un finestrino aperto a metà, bagnato ogni tanto da qualche schizzo di pioggia che ci ricorda di come spesso anche la natura può apparire ai nostri occhi imperfetta.

Ma non lo sarà, mai. Perché ogni fermata ci avvicina alla persona che scegliamo di essere. Sono giuste, tutte.

Se le mie ginocchia fossero ancora su quell'immensa distesa incontaminata di verde, il vento, nel suo silenzio, mi avrebbe invogliato a restare. Io ho scattato una fotografia e poi sono andata via, per iniziare la mia ventiseiesima primavera.