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mercoledì 23 novembre 2016

Passo dopo passo, scalino dopo scalino

Le metropolitane hanno sempre sortito quest'effetto su di me. Come fossero un metro per misurare chi fossi diventata e dove stessi andando. 
Passo dopo passo.
Scalino dopo scalino.
Corsa dopo corsa.

Sgomitando tra la folla rumorosa per cercare di superare tutti, anche quando ci si imbatte nella coppietta di turno che tenendosi per mano ti impedisce di farlo.
Guardando l'orologio con la consueta corsa contro il tempo.
Ammettendo che arriverai tardi tutte le volte. Ad ogni appuntamento. Anche quando ti sarai svegliata con due ore d'anticipo. 
Cercando di ascoltare il rumore dei passanti. Quella voce che come un disco rotto annuncia la prossima fermata, anche se sarai sempre con lo sguardo fisso sul tabellone a contare quei due minuti come fossero due ore. 
Preferendo di non ascoltare poi più nulla, mettendoti le cuffie nelle orecchie e ascoltando musica che non sapevi nemmeno di aver scaricato.
Imprecando perchè il ragazzo di turno si è lanciato sul primo sedile disponibile sgomitando manco fosse l'ultima scialuppa di salvataggio a disposizione.
Restando in piedi, tutte le volte.
Perchè tanto, ti dici, il tempo scorre in fretta o forse avrai solo imparato ad attendere con pazienza.

Lo penso, tutte le volte.
Che in fondo la vita può essere un po' così. Nascosta tra tunnel sotterranei che ti indichino una qualunque direzione senza assumersi la responsabilità delle scelte ma pronti, alla fine, a mettere in luce che se giuste o sbagliate ti hanno permesso di arrivare sempre ad un punto. Da cui proseguire, o ripartire.

Allora forse capirai che un tempo avresti voluto superare tutti. 
E forse lo fai anche oggi, pur rallentando dietro la coppietta che si tiene per mano.
Che pur abituandoti alla tua consueta corsa contro il tempo, oggi preferisci prenderti il tuo di tempo. Per ascoltarti di più.
Che non si arriva mai tardi, perché c'è sempre tempo.
Per cambiare.
Per essere in grado di sentire.
Per perdonare.
Per ammettere gli errori.
Per ammettere che poi, in fondo, forse nemmeno lo sono stati.
Per riscoprirsi diversi.
Per rallentare.
Per ripartire.
Per rimanere in piedi.

Perchè è questo tutto quello che conta.
Quello che si riesce a dare alla vita, prima di pretendere.
Ammettere che fare passi indietro non è sintomo di debolezza, quanto la consapevolezza di cosa si vuole essere. Spesso sono invece passi in avanti.
Ricordando che, in fondo, tutto quello che conta è essere una brava persona.

Passo dopo passo.
Scalino dopo scalino.

Corsa dopo corsa.
Punto dopo punto. Per proseguire, o ripartire.
Con un cuore nuovo, perché non si ha paura.

lunedì 11 agosto 2014

Imperfezioni.

L'altra mattina ero intenta ad asciugare le posate del ristorante, quando ad un tratto mi sono soffermata ad osservare i volti dei clienti in sala e dei miei colleghi, sembrando questi ultimi addirittura più gioviali dei primi.

Non so se lo fossero davvero, anzi credo che qualcuno nemmeno se lo domandi più. Fa parte di quel sistema che ti inghiottisce e non ricordi nemmeno quando e come sia capitato che ti sia trasformato in un essere robotico tuttofare. Posso saltare da una postazione all'altra, invitare i clienti ad entrare, preparare insalate, sparecchiare, chiedere loro se gradiscono un dessert, ma c'è una cosa che non sono in grado di fare su richiesta: avere un sorriso stampato sulla faccia perché così si deve fare. Ed è per questo che nascosta nell'angolo ad assicurarmi che piatti e posate fossero puliti per la clientela stavo bene: perché non dovevo pronunciare nessuna frase di circostanza, né sorridere come i miei colleghi. Un po' come quando mi rifugio in questo spazio digitale che racconta di quei dettagli e pensieri che messi insieme raccolgono la parte più autentica della mia vita.

E proprio mentre ero lì a lucidare l'ennesima forchetta, pensavo quando entrai in quel posto oramai un anno fa, con quell'unica aspettativa che accomuna chiunque approda in terra d'Albione: fare qualcosa, qualsiasi cosa.
Da allora è cominciata la mia corsa contro il tempo, quella che mi ha visto talvolta diventare grande nonostante avessi le ginocchia tremolanti, altre piccola nonostante la forza di un leone che come consueto tardo a tirar fuori. Sono entrata in quel luogo senza nessuna speranza, ma ogni giorno, mentre ero in cassa o a pulire forchette o a servire qualche cliente, la mia mente non si fermava mai. Pensavo, ogni giorno, a quello che potevo creare. Ed è lì che si sono compattati i miei desideri, che ho stabilito quali fossero le mie priorità, che ho alimentato le mie ambizioni, nonostante talvolta per la fatica vacillassero. Ma c'era una cosa che le ha sempre tenute insieme: la mia innata tendenza a riprodurre all'esterno il mondo ideale che sognavo per me, il non lasciare che niente al mondo ostacolasse ciò che di buono attendessi, e continuo ad aspettare. Sono entrata in quel posto in punta di piedi, ed in silenzio, e continuo a non far troppo rumore, perché ci tengo a mantenere i miei tempi, a non omologarmi ad una dimensione troppo veloce che non mi appartiene, perché c'è un olezzo di qualcosa che non so cos'è, so solo che è poco umano.

Questi mesi sono trascorsi in fretta. L'estate ha lasciato spazio alle foglie d'autunno che hanno ceduto il passo ad un gelido inverno che è stato poi spazzato via da una fresca brezza primaverile trasformatasi poi di nuovo in una breve ed inconsueta estate londinese, in cui ci sono giorni in cui il cielo sembra presagire l'inizio di un nuovo autunno, altri in cui quest'ultimo sembra ancora lontano. Non c'è niente che non rifarei, nonostante i sacrifici e qualche senso di colpa che ogni tanto, di notte, torna a farmi compagnia come fosse uno spettro che ti piomba dal soffitto, di cui non puoi far altro che tollerarne l'eco. Non c'è niente che non rifarei, nemmeno quelli che la gente continua a chiamare errori, ma che sono per me la parte più bella della vita. E non perché ti insegnano a non sbagliare più, ma perché ti portano a toccare con mano la tua reale dimensione, quella che sa di un'umanità che vorresti vedere in tanti altri che sembrano perfetti solo perché non commettono mai errori, ma sono invece dotati della più severa delle imperfezioni: quella che ti racchiude nello schema del si può-non si può, non facendoti godere mai abbastanza.

Non tratterò mai i miei "errori" con superficialità, perché non sarà mai vero che non me ne frega niente di loro. Se potessi li farei ancora, e ancora, e ancora, non solo per sentire l'olezzo del senso di colpa, ma avvertire il profumo di umanità dentro il mio cuore che mi spinge a chiedere perdono, ogni volta, anzitutto a me stessa.

Ed è per questo che del posto in cui lavoro poco mi importa. Perché ho avuto, chiamiamola fortuna, di mantenere integre le mie priorità, di non scendere mai a futili compromessi, di entrare ma mai fino in fondo in un sistema che non mi appartiene, quello che infonde il senso di dovere sotteso alla necessità di produrre per guadagnare. Io ho sempre lavorato perché avevo necessità di creare qualcosa di diverso. Chi crea non è suddito né li detiene, è semplicemente padrone di sé e fuori da quel contesto in cui non gli si può chiedere di ridere, perché quello è il linguaggio più intimo di un'anima. Quella che nessuno può controllare, quella che commette errori, quella che è bella perché è così, semplicemente imperfetta.

Quella mattina, nascosta in quell'angolo, nessuno mai dei presenti mi avrebbe chiesto a cosa pensassi.
In realtà pensavo a quanto sia semplice cancellare momenti etichettati semplicisticamente come "errori" come fosse la cartella di posta indesiderata, piuttosto che conviverci accettandoli come parte integrante di vita, quella che possiamo scegliere di cambiare o che può cambiare noi. Pensavo al modo di tenere in vita le priorità nonostante gli ostacoli, senza commettere l'errore di chi desidera ardentemente qualcosa e quando è ad un passo dall'ottenerlo molla perché ha paura.

Pensavo che nella vita si fanno delle scelte, ed io ho sempre scelto, ma qualche volta avrei voluto che qualcuno lo facesse al mio posto per sentirmi meno colpevole, forse.