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domenica 14 settembre 2014

Dietro l'angolo.

Impiego dieci minuti da casa mia al lavoro. Se cammino a passo svelto anche meno. 
Generalmente mi accendo una sigaretta che spengo sempre nella stessa stradina prima di svoltare l'angolo.
Sembra quasi una prassi consolidata: corro in strada, accendo una sigaretta, la fumo e la spengo esattamente lì. Se le avessi raccolte, una ad una, ciascuna racconterebbe di una giornata diversa. Quelle spente con la voglia di sentire il rumore del mare o il profumo del caffè bollente che ti sveglia di buon mattino, o quelle spente con il sorriso sulla labbra nonostante gli schizzi di pioggia che con un leggero tic toc bagnano le spalle. Quelle spente sperando di arrivare a casa presto ad abbracciare il tuo cuscino, oppure alzando gli occhi al cielo sentendomi una leonessa.

Da qualche giorno però la collezione di cicche di sigaretta in quell'angolo di strada sembra essersi arrestata.
L'altro giorno ho acceso una sigaretta esattamente come faccio sempre e solo quando ho preso le chiavi di casa mi sono resa conto di avercela ancora tra le dita e l'ho gettata via. E' successo quella sera, ed anche quella successiva, ed anche la seguente.

E' che ero stata trascinata così tanto da certi pensieri che avevo dimenticato le mie abitudini.Camminavo per inerzia e all'angolo non mi sono fermata, probabilmente non avrò nemmeno realizzato dove fossi e dove stessi andando.

Se raccogliessi tutte quelle cicche probabilmente non ci sarebbero quelle che raccontano invece di giornate in cui si è risucchiati in un vortice di pensieri senza fondo e di stati d'animo anomali. Quelle in cui fai esattamente il contrario di quello che pensi e dici esattamente il contrario di quello che invece faresti. Quelle in cui ti senti in un bilico creato soltanto da te perché forse l'altro nemmeno ci pensa. Quelle in cui cominci la tua battaglia giornaliera per sentirti diversa in luoghi dove invece basta essere uguale agli altri. Quelle in cui il silenzio ti consuma e dentro di te fa più rumore di un centinaio di stoviglie. Quelle in cui senti di dover cambiare qualcosa e aspetti il momento giusto per farlo ma non sai se sia già arrivato, forse mentre in quell'angolo nemmeno ci pensavi, sai da dove cominciare ma no se possa bastare. Quelle in cui vorresti un po' di pioggia che ti bagni la schiena per lasciare che tutto scivoli via.

Questa collezione la tengo per me, perché sono certa che nessuno la terrebbe con sé, sarebbe forse un inutile spreco di spazio.

E' che a volte dovremmo abbandonare certe abitudini per sentire il rumore dei pensieri che ci conducono esattamente dove vorremmo essere. Ma questa è un'altra storia.

domenica 15 giugno 2014

L'intimità della scrittura.

Quando sono rientrata dopo il lavoro, la casa era affollata. Mi sono accomodata per il pranzo che ho terminato esattamente dopo 15 minuti. Avrei voluto chiacchierare, nella mia lingua, ma mi sono limitata ad ascoltare distrattamente i discorsi che altri facevano a voce alta, in una lingua diversa dalla mia, che non parlo, ma che comunque capisco. Dopo soli cinque minuti la mia attenzione è calata, ed ho smesso di stargli dietro. E' da giorni che ho la sensazione che stia nascondendo qualcosa persino a me stessa, qualcosa che nemmeno mi va di dire, e che mi fa essere perennemente stanca. Lui mi ha accennato un vago "come va?che hai", nemmeno troppo deciso. Ed io ho naturalmente risposto come ogni donna in questi casi: "No, niente, va tutto bene". Nonostante addirittura un cieco potrebbe accorgersene, lui, come tutti gli uomini sulla faccia della terra, quella risposta se l'è fatta bastare. Come gli è bastato un abbraccio, nemmeno troppo stretto. Purtroppo gli uomini proprio non ce la fanno, è nella loro natura deludere senza accorgersene e non osservare i dettagli, nonostante siano visibili. Ma a me, oggi, andava bene così. Perché la verità è che non volevo dire nulla. Perché so che il problema sono io. E' la mia testa, che non si ferma mai, lavora elaborando pensieri continuamente, bizzarri o inusuali, piccoli o grandi, leciti o proibiti.

E allora non mi resta che fare i conti con loro, scrivendo. 

E' da giorni che ci penso e sono arrivata alla conclusione che sia più semplice conoscermi leggendo ciò che scrivo, che non vivermi quotidianamente. Alla scrittura lascio i pensieri più intimi, come se mi spogliassi di fronte ad un uomo che mi desidera senza vergogna e prima guardassi il mio corpo nudo allo specchio. Come se tra la vocalità e la scrittura ci fosse un imbuto che mantiene tutte le scorie: il liquido lo faccio scorrere tutto nel bicchiere che trabocca, le prime le lascio alla parola. Come quando dico "non fa niente", nonostante "ci sia qualcosa", "va tutto bene" mentre invece scriverei "perché non mi chiedi cosa c'è che non va, anche se non sarei in grado forse di rispondere", "vado via" quando invece scriverei "vorrei restare con te, ma é meglio di no". Ho pensato a quando mi è capitato di leggere libri di cui mi innamoravo. Perché era come se attraverso la concatenazione di parole, verbi, congiunzioni ed avverbi, riuscissi a dare un volto ai personaggi. Ogni tanto immaginavo di sentirli e addirittura di capire le loro vicende. Perché nella scrittura c'è qualcosa di sorprendente: riesce a tirare fuori il pensiero, ad elaborarlo scegliendo le parole giuste, limitando gli eccessi, negando qualsiasi filtro e nel rileggerlo, avrai la sensazione di guardare dall'esterno qualcosa che ti appartiene, sentendoci dentro, in un distacco che in fondo, è più sano. Ma ciò che amo di più della scrittura è che quasi inconsciamente ti costringe a dire la verità, come se guardassi la tua immagine riflessa a cui non puoi mentire.

Allora pensavo a chi mi vive tutti i giorni, pensando di conoscermi abbastanza, nonostante non legga niente di ciò che scriva. E a chi, non mi segue nel quotidiano, ma continua ad entrare nella mia intimità silenziosamente, guardandomi riporre i vestiti sulla sedia, senza alcuna pressione, lasciandomi fare. 

E ho pensato che al mondo esistono due tipologie di persone: quelle che si accontentano della crosta, dura o spinosa che sia, e quelli che invece vanno oltre ciò che il suono della parola vuol pronunciare, incuriositi da ciò che la superficie nasconde, entrandoti dentro, senza nemmeno far troppo rumore.

Non sei tu ad imporlo, sono loro a scegliere da che parte stare.