venerdì 11 gennaio 2013

Si chiude una porta, si apre un portone.

Di fronte a grandi o piccole sventure quotidiane recito spesso tra me e me il detto "Si chiude una porta, si aprirà un portone", quasi come se volessi darmi la carica, per non smettere di sperare di alzare gli occhi al cielo e di intravedere un giorno un arcobaleno che prepotentemente si ritaglia uno spazio tra le nuvole grigie come la cenere che hanno mandato giù schizzi di pioggia che hanno bagnato l'asfalto sino ad impedire la visibilità dei marciapiedi, delle strade, delle albe e dei tramonti.
Ho aperto e chiuso così tante porte al punto da diventarne un'esperta, al punto da credere che in fondo sapessi fare soltanto questo, aprire e chiudere senza mai varcare però l' uscio della porta, restando poco o per niente. Tante altre volte pensavo di averla aperta rendendomi conto soltanto in seguito che in realtà quella porta non era mai stata spalancata del tutto bensì socchiusa, ancora altre la spalancavo ma dietro di me c'era sempre qualcuno che non mi permetteva di varcare l'uscio e che con indicibile arroganza me la chiudeva in faccia, costringendomi a vagare alla ricerca di altre porte da aprire. Ogni volta che dietro di me una porta si chiudeva ho sempre creduto che fosse arrivato il momento di aprire il portone, tramutatosi regolarmente in una porta ancora più piccola di quella chiusa precedentemente, in un cancello che non poteva essere scavalcato, talvolta ho avuto addirittura l'impressione di essermi imbattuta in una cuccia per cani. Credo di aver aperto e chiuso innumerevoli cancelli, porte di media grandezza, porte piccole e strette, talvolta nell'attesa mi sono fatta andar bene anche delle strettissime cucce per cani, ma non credo che i portoni mi siano mancati, solo che sono durati sempre quanto basta per un breve assaggio, i bocconi più prelibati che abbia mai ingerito, per poi essere costretta a chiuderli alle mie spalle per dovere, per esigenza o per amor proprio, o essere costretta a vederli chiusi da qualcun'altro al mio posto che forse credeva che quel portone era troppo grande o addirittura ancora troppo piccolo per me, nonostante in fondo nessuno glielo avesse ordinato. Il problema è che in realtà è proprio con le persone che non riesco ad indovinare mai la chiave giusta per aprire la porta. Talvolta ho voluto aprire porte a chi sembrava entusiasta di entrare, a chi si è accomodato per consumare il pasto, ha chiesto il conto e poi come un turista passato lì per caso è andato via chiudendo la porta alle sue spalle, talvolta senza lasciare una mancia, senza salutare, senza lasciare alcun messaggio. In effetti mi sono convinta di non pretendere mai niente di tutto questo, ma mentirei se dicessi di non aver mai sperato che qualcuno diventasse un cliente abituale, che in fondo qualcuno non si limitasse a complimentarsi del buon cibo gustato ma che decidesse di restare. 
Le persone invece mi hanno deluso parecchie volte, hanno spesso mentito palesandosi nella loro cruda e meschina essenza che non credevo potessero avere, assumendo atteggiamenti di indifferenza e di distacco indicibile che non sono riuscita a comprendere. Ma credo di aver deluso e mentito anche io, non così tante volte, ma qualche volta forse l'ho fatto anch'io. Perchè la verità è che quasi sempre cerchiamo negli altri l'alibi per discolparci, cominciamo la frase con "le persone", ma non siamo forse persone anche noi, io che scrivo e voi che ritrovando un po' di voi stessi in ciò che sto scrivendo state avvalorando la mia posizione?
Riesco in fondo a spiegare solo in questo modo i comportamenti deludenti, il chiudere porte poco dopo averle aperte, il non trovare mai la chiave giusta, riesco a dare una spiegazione a tutto questo solo convincendomi del fatto che la vita sia un ciclo e così tutto ciò che ne fa parte. Allora mentre diremo che qualcuno ci delude saremo forse noi l'oggetto della delusione di qualcun'altro senza nemmeno accorgercene, mentre qualcuno sarà l'oggetto dei nostri desideri proibiti lo saremo al contempo anche noi per qualcun'altro, mentre ci vedremo sbattere porte in faccia senza aver avuto nemmeno il tempo necessario per varcarne l'uscio staremo intanto forse chiudendo in faccia la porta a qualcuno, nonostante l'assurda convinzione di essere sempre e soltanto noi le vittime e mai i carnefici. Non lo so, forse questa risoluzione risolleva il morale, o forse questo tentativo di comprendere sempre tutto è sbagliato, perchè in fondo se la vita ed in particolare le persone potessero essere in qualche modo "spiegate", ognuno ci darebbe la possibilità di farlo, di aprire la porta con la chiave giusta, o a limite ci offrirebbe un libretto illustrativo per evitare gli effetti collaterali, che ho il talento di non aver mai evitato.
Un portone ove ripararmi dalle intemperie, di quelli che ti consentono di restare, di quelli imponenti e decorati, così belli da restare incantati, non sono riuscita ancora a scovarlo, non so nemmeno se esiste in realtà, non so se il destino me lo abbia riservato.Ma in effetti non ho mai temuto l'azione dell'aprire e chiudere porte, che talvolta ho chiuso piano per non far rumore, altre volte le ho sbattute per provocare volutamente un gran clamore. Non temo di non trovare il portone tanto desiderato al punto da essere in grado di superarlo e di restarci, ma temo molto di più che il mio incessante vagare alla ricerca di qualcosa di cui non conosco nemmeno la certa esistenza si tramuti in noia, in stanchezza, in disillusione, al punto di esser così stufa di vagare, di aprire porte che sai di dover presto chiudere, da non volerlo più fare, al punto di pensare che forse questo vagare non troverà mai un'unica grande meta. E' questo che temo più del continuare ad aprirmi e a richiudermi, forse il prezzo del non accontentarsi di guardare il mondo restando seduta sull'altalena legata al lampadario della tua stanza. Talvolta è avvilente anche l'ostinato tentativo di dover comprendere a tutti i costi, come se si stessero cercando colpevoli che nemmeno esistono.

mercoledì 9 gennaio 2013

Sei un degno utente di facebook se ...

3...2...1... Ready!
Sei su facebook! Gli americani ci sono riusciti anche stavolta ad inserire nel tuo linguaggio l'ennesimo termine americano la cui traduzione in italiano significherebbe "faccialibro", ossia "Una cagata pazzesca" per dirla alla Fantozzi, un po' come l' hot dog che evitiamo di tradurre per non pensare di mangiare un "cane bollente", "chattare", "spam", "post-it", "hotel", per non parlare del "bed and breakfast" che suona meglio dell'ospedaliero "letto e colazione", o del termine "single" che fa più figo del termine tradotto in italiano "solo", dietro il quale potrebbe nascondersi un "sono stata mollata per un'altra", "il mio ex ha scoperto di essere gay", "sono sfigata perchè incontro sempre uomini sbagliati", perchè oggi in fondo tutti temono la solitudine, nessuno vuol essere solo, ma tutti vogliono stranamente essere "single". Che paradossale contraddizione, eppure si tratta di termini, di definizioni, una questione per così dire, di "traduzioni". Quasi come se la lingua italiana dovesse fare un passo indietro, lasciar spazio a nuove terminologie, essere all'avanguardia rispetto la conclamata "globalizzazione", venendo mal visti quando sbagliamo la pronuncia dei termini di nuova importazione, mentre invece George Clooney è stato strapagato per ripetere "Immagina, puoi!" nonostante appaia come un balbuziente. Data questa breve premessa, vorrei però soffermarmi su questo fantastico social network che è facebook (altrimenti denominato faccialibro a dispetto di tutti gli anglosassoni), una delle più incredibili innovazioni della nostra era. Ma in Italia (parlo della mia Nazione perchè purtroppo o per fortuna non sono in grado di consultare anche le piattaforme internazionali) quando puoi dire di essere un degno utente di facebook, degno perchè riceverai un minimo di 30 mi piace agli status o tra i 40 e 60 mi piace alle tue fotografie?
Sei un degno utente di facebook se citerai Bukowski, Fabio Volo, Alda Merini, Marilyn Monroe, Oriana Fallaci, pur non avendo mai letto un loro libro, ma scoprendone l'esistenza attraverso citazioni pubblicate da altri amici di facebook che desidererai emulare con un rapidio "copia ed incolla" perchè vorrai essere degno anche tu di entrare a far parte di questa congrega di finti intellettuali, perchè se riuscirai ad ottenere almeno 30 mi piace ti convincerai di piacere e di essere in gamba. Sarai un degno utente se tu donna scriverai frasi sul vero amore e su quanto sia complicata la ricerca del principe azzurro dopo aver fatto conoscere il tuo corpo all'intero reame, cavalli compresi. Sarai un degno utente se tu uomo scriverai quanto sia difficile trovare una ragazza seria e con degli stimabili contenuti se continuerai a mettere al tuo fianco delle notorie bagasce. Sarai un degno utente se avrai famiglie allargate, contando due madri, tre padri, quattrordici sorelle, dieci fratelli, otto cugini, a limite anche una zia ed un nonno.
Ti convincerai di essere intelligente però solo quando scriverai frasi che verteranno sulla politica italiana nonostante tu non abbia mai ascoltato un telegiornale, abbozzando frasi del tipo "Il Governo fa schifo, mandiamo tutti a casa, tagliate gli stipendi ai parlamentari invece di aumentare le tasse", tutti salvatori della patria, in effetti non capisco perchè Monti non li abbia chiamati al suo fianco per risolvere la crisi economica.
Vogliamo poi parlare di questa invadenza nel voler conoscere la tua "situazione sentimentale" a tutti i costi? Vogliamo parlare di quello scostante "impegnato" optato dagli uomini e del "fidanzata ufficialmente" cui tendono invece le donne? Così facendo gli uomini subiranno la sindrome da "incatastamento", le donne si sentiranno messe da parte. Questo provocherà litigi e fraintendimenti nell'attesa che uno dei due possa cedere, o nei casi più estremi delle vere proprie rotture che saranno ufficializzate da una modifica al tuo stato sentimentale: Anastasia è passata da fidanzata ufficialmente a single. Trenta mi piace, ventiquattro commenti, tra cui l'estraneo di turno che inopportunamente scriverà quel banale "Ma che dici?Come mai?Vedrai che tutto si aggiusta". 
In effetti Mark avrebbe potuto risolvere il problema con la via intermedia del "fidanzato ufficiosamente", così da gettare un po' di fumo negli occhi alle donne, e garantire sogni tranquilli ad uomini timorosi.
Per non parlare delle coppie che decidono di iscriversi su facebook con un unico account, creando inverosimili profili con nomi e cognomi tutti attaccati tipo LinaDiGirolamo&EspositoStefano, con annesse foto profilo e foto di copertina con loro che si baciano fingendo passionalità mentre al momento dello scatto magari l'uno diceva all'altro "Amò, mi fa male il braccio, facciamo presto, dai va bene questa!" "Ma no amò che dici? Sto male, scattiamone un'altra", tutte rigorosamente ad occhi chiusi, di profilo, mentre le loro labbra si toccheranno. Si scambieranno in bacheca frasi che potrebbero scambiarsi anche in privato ma di cui, per essere dei degni utenti, renderanno partecipi anche noi, provocando per i più sensibili una sensazione di rigurgito.
Sei un degno utente di facebook se ti scatterai prima di uscire di casa una fotografia per far conoscere a tutti il tuo abbigliamento, se inserirai la tua posizione anche quando sei al cesso o andrai a dormire nel tuo letto (pensavo dormissi nella cuccia del cane), se ti scatterai foto con l'improponibile boccuccia a culo di bottiglia, che modificherai sino ad apparire una strafiga pazzesca, al punto che certe per strada non riesco a riconoscerle, pensando tra me e me "Ah ma tu sei quella figacciona? Eh beh, scusami tanto se sono una tecnologicamente ritardata e non so usare Photoshop!"
Alla fine Facebook è geniale, fa bene, è bello, ma ciò che è virtuale non significa che sia per forza reale. Credo che nemmeno Mark fosse pronto ad una piattaforma tramutatasi in un addescamento tra uomini e donne incapaci di comunicare in altri modi,ad una piattaforma da molti interpretata come fosse il muro del pianto, a volti, amori, amicizie, intelligenze e capacità propagandate per reali, ma pur sempre e solo virtuali.
Mark l'avrebbe forse evitato, in fondo gli americani temono la concorrenza.

martedì 8 gennaio 2013

Gli aeroporti.

Amo l'immagine di quelle persone che attendono in aeroporto chi sta per arrivare, avendo tra le mani un cartello con su scritto "Miss Murple", "Mr Giorgio Pinto", "Miss Alice Castellani". 
Amo osservare quelle persone che sapendo della presenza di qualcuno che li attende volgeranno lo sguardo tra i tanti cartelli per scovare il proprio, amo il sorriso di chi legge il proprio nome sul cartello e quegli sguardi luminosi che si intersecano tra chi con quel sorriso non dirà altro che "Ti ho trovato" e chi con la medesima smorfia sul volto vorrà dire senza pronunciarsi esplicitamente "Sono qui per te". 
Amo gli incontri in aeroporto, quasi come fosse quella la vera meta del viaggio, di quel vagare da città in città, per poi ritrovarsi in un abbraccio ristoratore che vuol dire nel suo silenzio "Sono tornata". 
Amo osservare l'andare e venire di persone di diverse nazionalità nelle sale d'attesa degli aeroporti. Talvolta mi sono soffermata anche ad osservare le lacrime e gli abbracci di chi lasciava sul pavimento non troppo distante da se il suo bagaglio prima della partenza. Immagino che quanto più sia intenso l'abbraccio, quanto più sia lungo il silenzio alternato da quel dignitoso rumore dei singhiozzi che lasciano spazio a lacrime che solcano il viso, più sia dura la partenza, più sia lungo il soggiorno di chi parte, più sia dolorosa quell'assenza per chi resta. Ma gli aeroporti mi piacciono, non solo perchè fanno pensare a viaggiare, una delle cose che adoro maggiormente fare, ma perchè in questo luogo credo che attraverso l'immagine delle persone che impugnano quei cartelli si nasconda una trepidante attesa, credo che avvenga uno scambio di un profondo quanto umano affetto che pur lasciandoti il cuore a pezzi, fermo, a tratti freddo è come se al contempo invece si dilatasse, corresse, ti desse conferme al decollo dell'aereo, perchè quella persona sta andando via e la sua mancanza ti irrigidisce i muscoli ma se sei lì significa che quel cuore che porti in petto quella persona che sta andando via l'ha riscaldato come nessuno ha mai saputo fare prima. C'è un enorme scambio di amore anche quando fremi al pensiero del suo ritorno, anche quando giungi in aeroporto in anticipo nonostante tu non sia una persona puntuale, quando l'entusiasmo ti gonfia, ti fa sembrare forse addirittura più alto, alla notizia che l'aereo è atterrato. 
Adoro quei posti come gli aeroporti che riassumono tutto quello che in fondo la vita comprende: arrivi, partenze e ritorni, atterraggi e decolli, ritardi, attese estenuanti, abbracci di riconciliazione, lacrime di nostalgia, scambi di amore, di affetto, di gratitudine che avvengono nel silenzio di due anime come se attorno non ci fosse altro, tra il rumore della folla che passa che loro non riusciranno minimamente a percepire perchè conta troppo quel saluto che sperano sia un arrivederci pur conoscendo il rischio che possa tramutarsi in un addio, sorrisi e sguardi che aspettano di ritrovarsi nei sorrisi e negli sguardi di chi li attende impugnando cartelli con su scritto un nome che in realtà significa semplicemente l'esserci per l'altro perchè certi rapporti sono destinati a vagare in uno spazio che sa di ignoto per poi rivedere la ricongiunzione dei fili che in fondo non si sono mai persi del tutto, che in fondo sono legati da sempre, per sempre. Amo quei posti in cui puoi percepire la fragilità dell'uomo dinanzi un allontanamento che provoca dentro ogni corpo un vuoto profondo quanto una voragine, il ricominciare di chi decolla, il mettere radici di chi atterra, lo sguardo perplesso ed ansioso di chi teme di non arrivare in tempo, il coraggio di chi aspetta e la gioia di chi sa che esiste qualcuno che ancora vuole esserci, quell'incredibile scambio di amore che avviene senza troppe parole ma nel silenzio lucente di sguardi e sorrisi che si scrutano per poi riconciliarsi, la dignità di chi resta inerme di fronte a saluti che intanto fanno il cuore a pezzi. Amo quei luoghi che raccontano tutto questo, quei posti dove le persone si incontrano trasmettendosi un pezzo di se l'un l'altro, quei posti che sanno di umanità, di vita, quella vera, quella che ti fa piangere e ridere, quella che ti strazia e ti entusiasma, quella che vuole che attendi perchè il tuo momento ancora non è arrivato, quella vita che ti costringe spesso a decollare per poi atterrare. Mi piacciono i posti così, dove se sei particolarmente attento riesci a palpare la vita, a percepirne il senso anche solo osservando in silenzio senza far troppo rumore, quei posti dove c'è talmente tanta vita da poterla tagliare a fette e conservarne un pezzo da portare nelle tasche, perchè ovunque ci siano persone c'è sempre un ineguagliabile scambio di vite.

lunedì 7 gennaio 2013

A Londra per una tazza di thea.

Ritornare in una città come Londra per soli tre giorni, una città che per parte della tua vita ti ha visto protagonista e allo stesso tempo spettatrice, sognatrice e disillusa, star e cameriera, cuore e cervello, è stato meno semplice del previsto. Con lo sguardo alto verso il Big Ben, tra le strade di Oxford Circus e Regent Street che conducono a Piccadilly circus, tra la folla dei venditori e turisti di Portobello, tra la stravaganza di Camden Town o gli artisti di strada di Covent Garden mi sono spesso sentita in un equilibrio precario, con la mente a lì ed allora, a quei mesi splendidi di vita che raffioravano come boccioli, come se ogni angolo di strada avesse un ricordo da cogliere, ma con il corpo qui ed oggi, in un momento diverso eppure così simile, con la gioia di chi ripercorre strade che è come se avessero lasciato le tue orme su di un asfalto ancora fresco, la lucidità degli occhi di chi comprende che nonostante l'aria che si respiri in fondo sia sempre la stessa, mentre tu ti sei fermata Londra correva, ed insieme a lei anche le persone. Pensavo di essere ritornata ma forse non è così, perchè a tratti ho avuto come l'impressione di non essere mai tornata del tutto, di essere rimasta lì come se i mesi successivi al mio ritorno li avessi vissuti ad occhi chiusi, sono rimasta lì, all'indirizzo Parmiter Street 23. Dovevo tornare a riprendermi. Non so se questa volta ci sono riuscita, perchè generalmente lascio un pezzo di cuore ovunque vada, in tutti quei posti che ti donano tanto e allora un pezzo di anima la lascio anch'io, quei posti che ti spingono a tornare per respirare aria diversa, in quei posti che per un po' hai chiamato casa, per ricordare, per vivere, per sognare, per toccare le corde più intime del tuo essere, una città in cui non mi sono mai fermata se non in metropolitana o su degli scalini quando volevo scrivere qualcosa su quell'agenda che porto sempre con me. Allora forse da città come queste io non torno mai, vado solo e ci resto. Ma forse stavolta una piccola parte di me è tornata, per dovere o forse proprio per il desiderio di pensare a me stessa senza lasciare che i ricordi prendessero il sopravvento, sono tornata da legami che pensavo fossero inossidabili ed invece oltre ad ossidarsi si sono addirittura sporcati del marcio di quelle persone che hanno l'attitudine di rimuovere, sostituire e gettarti come un fazzoletto che non serve più, lasciandoti senza parole, nonostante in genere ne abbia sempre tante da pronunciare in ogni occasione. Chi ha letto il post precedente sarà forse curioso di conoscere come sia andata, se abbia fatto o meno la fine dello Sputnik, condannato a vagare nello spazio per sempre. Con profondo rammarico dico di sì. Ma mi sono accorta di aver fatto soltanto io la fine dello Sputnik perchè in fondo un noi già non c'era più da tempo, ancor prima della mia partenza. Io nei miei pensieri in quel caffè londinese sono entrata, al tavolino mi ci sono seduta e ho anche ordinato una tazza di thea fumante che ho lasciato raffreddare per gustarlo meglio. Ho aspettato per ore o forse giorni il suo arrivo, ma quella porta è rimasta sempre chiusa. Ho provato per l'ennesima volta a comprendere e a cercare giustificazioni fin quando mi sono detta "Basta, devo tornare". Non c'è più tempo per vagare senza mai incontrarsi come lo Sputnik, non c'è più un noi, non c'è più tempo per i ma i se ed i forse, allora ai rimpianti ho preferito delle amare e laceranti delusioni, scontrarmi contro un muro le cui pareti ho scoperto essere di cartapesta, perchè in fondo esistono anche queste persone: quelle che alla tua partenza ti salutano con gli occhi gonfi, ricordandoti di quanto tu sia una bella persona per loro, quelle senza le quali non avresti mai pensato ad una permanenza migliore di quella vissuta ma che quando torni anche un saluto riescono a negarti, anche i ricordi riescono a sporcare, seminando dentro di te la convinzione che forse è vero che chi si accontenta gode ed io forse mi sarei dovuta accontentare del lì ed allora senza aspettarmi altro, perchè così forse quei ricordi sarebbero restati intatti senza mai sporcarsi, il mio cuore non avrebbe smesso di credere nell'esistenza di persone speciali, l'amore che covo verso qualsiasi persona, cose o città non mi avrebbe bruciato. Ma forse questo era necessario per tornare da quei legami che altrimenti sarebbero restati sempre appesi ad un filo, in balia dei condizionali, per cavalcare quello che è in fondo il mio motto, la politica del "Lasciare che sia", per non mortificarmi più del dovuto, per lasciare che tutto passivamente scorra sul mio corpo, per sperare, nonostante con un cuore colmo di delusione sia difficile, di incrociare un giorno persone che riescano a cavalcare la mia stessa onda, con meno parole, più silenzi, maggiore rispetto e profondità d'animo. Altri invece mi hanno allietato, infatti una delle domande più belle che abbia ricevuto in questi giorni da un'amica lasciata a Londra in settembre e incontrata in questi giorni è stata: "Ma quando scrivi un libro?Io sarei la tua prima lettrice!Ti seguo sempre ..." e so bene che alla lettura del tanto atteso "post del ritorno" starà proprio in questo momento sorridendo. Tutto questo mi è servito per comprendere una cosa molto importante. Quando sono ritornata in Italia a settembre ero completamente vuota, schiacciata dai ricordi e dai rimpianti, ancorata a legami che avrei voluto continuare ad alimentare credendo che la distanza non fosse un ostacolo così insormontabile per rapporti improntati sull'autenticità e sulle parole mai pronunciate per caso, con un'anima colma di mancanze. Adesso il mio ritorno mi vede invece tutta intera, con dei ricordi che avrei voluto lasciar puliti ma che le persone o forse il fato per suo dovere ed esigenza di proteggermi ha voluto sporcare, senza parole ma solo certezze, legami che ancora ci sono ma altri spazzati via da quel tempo che ha moltiplicato le distanze gettandomi in un pozzo. Ho avvertito una sola vera mancanza che sembrerà per molti assurda ma non meno di quanto lo siano certe persone che ho il "talento" di incrociare lungo il mio tragitto, non meno di certi atteggiamenti che non lasciano spazio a commenti: scrivere. Devo dire che questa volta rispetto ad allora ho sentito di tornare da qualcosa che avevo l'esigenza di riprendere per non sentirmi a metà: la tastiera del mio pc, le dita che veloci scorrono sui tasti, la mia ispirazione che prende forma in un conglomerato di parole che sono solo il frutto delle mie sensazioni che in modo diverso da questo non sono in grado di sciogliere. 
Avevo in fondo bisogno di tornare ad essere tutta intera, qui, adesso. Oggi lo posso dire, nonostante in fondo al mio cuore penso a Londra come a quell'uomo di cui conosci ogni dettaglio, ogni smorfia del viso, che ami follemente nonostante talvolta abbia il vizio di tradirti, ma che tu ogni volta perdoni, perchè credi che il perdono sia la virtù dei pochi che sappiano cosa significhi amare, perchè sai che a suo modo anche lui ti ama, sai che in fondo è l'uomo della tua vita o di parte di essa ed allora sarai anche in grado di aspettare, di andar via, ma di tornare di tanto in tanto, per poco o per restargli accanto, ma sempre tutta intera, senza mai lasciare che gli eventi ti mortifichino e ti annullino, come fa chi ama e chi proprio per questo perdona.

giovedì 3 gennaio 2013

Un trolley, un libro, un'agenda.

Ho un trolley di un arancione inconfondibile nell'angolo della mia stanza accanto alla porta contenente pochi vestiti, quanto basta per un weekend. Ho anche un'agenda, quella che da un po' porto con me nella borsa perchè talvolta mi piace appuntare quello che vedo, magari troverò ispirazione stando stesa sul prato con lo sguardo alto verso il Big Ben. Ho un libro che sto leggendo nella borsa, dal titolo "La simmetria dei desideri", di un autore israeliano, un altro sulla scrivania che comincerò quando finirò il primo, dal titolo "La ragazza dello Sputnik" dello scrittore giapponese Murakami Haruki, uno dei miei scrittori preferiti. L'ho acquistato giorni fa ed ero indecisa, ma mi è bastato leggere i primi righi della recensione per sceglierlo: "Sumire è una ragazza impulsiva, disordinata, generosa, con il mito di Kerouac e della scrittura. Myu è una donna matura, sposata, molto ricca e molto bella. Sumire ama Myu come non ha mai amato nessun ragazzo e Myu parrebbe provare lo stesso sentimento, ma uno schermo invisibile sembra separarla dal sesso e forse dal mondo. Riusciranno ad incontrarsi o si perderanno senza lasciare traccia come lo Sputnik, condannato a vagare nello spazio per sempre?" Lo prendo. E chi mi conosce ha subito capito perchè. Perchè parla di una particolare quanto attuale e reale forma d'amore che non appartiene alla mia persona ma la verità è che a me basta che si parli di amore e trovo tutto molto affascinante. Mi sono rivista forse in Sumire quando la si definisce "impulsiva, disordinata, generosa, con il mito della scrittura". Ho anche io il timore di non lasciare alcuna traccia. Ho immaginato uno stralcio di vita alla lettura della domanda finale, paragonando un po' di me stessa allo Sputnik. Non pensavo al momento dell'acquisto che questo interrogativo fosse in parte anche la trama dei prossimi tre giorni a Londra, non pensavo di venire a conoscenza delle solite verità scomode che anzitutto feriscono il mio orgoglio di donna così presto, così vicino ad una partenza che fino a ieri mi rendeva entusiasta, oggi quell'entusiasmo si sposa con un po' di paura e un sottile velo di rammarico. Forse deciderò di prendere una tazza thea in un qualche caffè del centro, vi entrerò trafelata mentre tento di chiudere l'ombrello o forse ci sarà un inaspettato splendido sole. Forse mi aspetterà al tavolino o forse dovrò io aspettare lui. Forse saremo imbarazzati perchè è passato tanto tempo per lui, per me è come se ci fossimo salutati solo l'altro ieri. Forse cominceremo a parlare a vanvera senza toccare l'argomento, cominceremo a sorseggiare il nostro thea solo quando si sarà raffreddato ed una volta finito ci saluteremo e andremo via, di nuovo, ognuno per la sua strada. O probabilmente ci sputeremo in faccia le nostre verità sin da subito, non potendo sbattere porte cominceremo ad inveire l'uno contro l'altro, ma alla fine il risultato sarà sempre lo stesso. Ci saluteremo, e andremo via, per le nostre strade diverse nonostante il mio tentativo di cogliere una qualche minuziosa similitudine in un quadro che nulla più in fondo racconta, io seguirò la mia dai contorni indefiniti, lui andrà da lei. Non so quanto senso abbia tutto questo. Non c'è amore, passione, orgoglio, sembra non esserci niente se non l'amarezza dei ricordi, se non il desiderio ancora una volta di andare a fondo e risalire, come in fondo sempre mi accade, se non il desiderio di affrontare paure, esprimere opinioni, vedermi gettare in volto verità che forse nemmeno mi interessano ma le esigo, alzandomi poi come una donna fiera, svoltando l'angolo con una triste lucidità degli occhi che ancora una volta non troverà colpevoli, ancora una volta non sarà per nessuno ma semplicemente per ciò che avrei potuto avere in quella vita a me troppo distante, oramai lontana, passata, irraggiungibile, che in fondo non mi è mai appartenuta pienamente.
O forse faremo esattamente come lo Sputnik: vagheremo senza mai incontrarci.
Il vagare è un po' il motore della mia vita, ma anche l'amore lo è. E' questo il più grande paradosso, perchè vorrei tanto piantare radici vagando, ma è come pensare di far fiorire boccioli senza mai innaffiarli: una contraddizione in termini. Ma io questa vita in fondo l'ho scelta perchè mi rende viva, e c'è sempre un prezzo, a volte parecchio costoso, perchè la vita non fa sconti nè regala alcunché. Ma oggi c'è un trolley di un colore vivace nell'angolo, un'agenda con pagine da riempire nella mia borsa, un libro da leggere che attende di essere ultimato nella borsa ed un'altro da iniziare sulla scrivania, il primo un inguaribile manifesto sul tema dell'amicizia, il secondo su di una particolare forma di amore, quasi come se quest'ultimo non volessi portarlo con me, non per mia scelta, ma credo sia giusto che attenda sulla scrivania il suo tempo che talvolta ho come il timore che possa non arrivare mai, ma lo lascio qui perchè il mio cuore non venga dato in pasto al migliore offerente, perchè sia sempre io quella che dovrà scegliere a chi donarlo, passeggiando sulla mia strada. Allora oggi scelgo di essere un trolley non troppo pieno ma di un inconfondibile e vivace colore arancione, pagine di un libro che dovrò terminare, pagine di un'agenda quasi nuova che desidero riempire, lasciando che sia, come le note di una delle mie canzoni preferite. Perchè sono quella che in fondo porto sempre con me ed è importante che me ne ricordi, di tanto in tanto.
Non ho ancora letto il libro che è sulla mia scrivania, ma in fondo da inguaribile romantica spero che Samire e Myu riescano a ricongiungersi ed amarsi, nonostante il loro incessante vagare, lo spero nonostante in fondo credo che anime come loro siano destinate ad un'unica fine, una fine che per molti potrebbe apparire triste ed insoddisfacente, ma in fondo è solo il prezzo da pagare per chi sceglie di non fermarsi al corridoio della propria casa, ma sperimentare sempre nuove e diverse strade, nonostante spesso i loro passi ritorneranno a calpestare lo stesso ruvido asfalto della propria unica e sola strada: quella dello Sputnik. 
Vi aggiornerò sull'epilogo quando terminerò la mia lettura.

mercoledì 2 gennaio 2013

Preda dell'inevitabilità.

Eccomi qua, ancora una volta, con un sorriso ironico, tipico di chi deve mostrare una certa maturità che la faccia sentire più donna, mettendo ancora una volta in secondo piano l'esserci rimasta male per qualcosa che in fondo è indefinito. Eccomi qua ancora una volta, preda dell'inevitabilità, delle sue mille contraddizioni, del suo esprimersi a singhiozzo, preda dell'aver creduto in qualcosa di inesistente, preda dei suoi mille ripensamenti, della fiducia che spesso ripone nei rapporti che talvolta la tradiscono, preda dei non so dei ma e dei può darsi, preda dei ricordi, del pensiero inopportuno che tutto possa essere eterno senza mai mutare, preda delle sue tante fantasie che non hanno forma, preda delle distanze che inevitabilmente assottigliano e rimuovono, preda di chi ha l'esigenza di uscirne pulito volendo sporcarti per il semplice fatto che la tua mente si sia spostata troppo in là, verso un'isola che non c'era e non c'è mai stata, preda delle giustificazioni, preda del dovere di comprendere sempre l'altro senza che nessuno si sporga a comprendere anche te, preda di quel dovere morale di capire la naturalità degli eventi che in fondo considero i peggiori, dove nessuno è pulito ma nemmeno sporco, dove sembra che tutti abbiano colpe ma in realtà nessuno è colpevole, preda in fondo del tempo che lava asciuga e ripulisce, quel tempo che è maledetto perchè ti lascia sbigottito ed impotente, senza parole, puntando soltanto il dito contro di te, te che sei stata preda di qualcosa di cui in fondo conoscevi già l'epilogo ma che temevi arrivasse. Allora il tuo sentirti ferita non ha colpevoli, se non forse un po' te stessa, la tua ostinazione, la tua mancata predisposizione a voler circoscrivere qualcosa che doveva avere semplicemente il titolo "Lì ed allora", a cui invece hai dato l'etichetta "Lì ma anche un po' qui, allora ma anche oggi", aggrappandoti ai ricordi che riaffioravano e che speravi potessi ancora vivere, aggrappandoti a persone che contrariamente a te hanno continuato sulla loro strada, ed il loro non fermarsi ha portato alla logica conseguenza della "sostituzione", evento naturale e comprensibile, che non da però merito al tuo stato d'animo, alla domanda che spesso poni a te stessa: "Ma allora io alle persone cosa sono in grado di trasmettere per essere sostituita così presto?" Una domanda che non trova risposte, e che in effetti non dovrei nemmeno pormi perchè è priva di senso, perchè in fondo è normale, è logico, è naturale, si tratta di conseguenze. Quelle conseguenze che spesso conosco sin dall'inizio ma è come se provassi la masochistica voglia di sentirmele scaraventare in faccia, in modi non sempre pienamente condivisibili, come se pur conoscendo i probabili risultati ci voglia comunque provare, come se provassi a moltiplicare il due per il due sperando in un risultato diverso dal quattro. Soltanto dopo essere piombata nelle aspettate conseguenze rimetto la prima e riparto, è come se non volessi mai evitarle. Ma poi mi fermo e mi chiedo il perchè. Poi mi fermo e mi chiedo "Io dove vado a finire, ma soprattutto, le parole degli altri perchè continuo ostinatamente ad ascoltarle e soprattutto a crederci?" Alla fine forse anche il fatto che certi gesti, certe parole, certe persone vengano trascinate dalla forza del vento, anche questo fa parte del gioco, anche questo è un evento naturale dove il tuo restarci male trova uno spazio residuale, ove il tuo cuore deve continuare a battere senza far troppo rumore. Alla fine credo di esser troppo spesso preda anche della mia eccessiva rigida stupida coerenza.

Le persone: la più bella delle invenzioni.

Comincia un nuovo anno. Comincia ancora una volta senza di te. 
Comincia con un cielo nuvoloso e schizzi di pioggia che bagnano i vetri, iniziando così, proprio come è terminato. Un anno in cui dovrò solo ricordare senza mai più sentire il suono della tua voce, quella con cui mi chiamavi "Avvocato" ed io puntualmente ti rispondevo che quella non era l'ambizione della mia vita e allora tu mi chiedevi: "Allora cosa vuoi fare?Vuoi diventare un notaio, un magistrato oppure una giornalista?Cosa vuoi fare? Tu devi diventare qualcuno di importante, qualcuno che valga la pena ricordare, tu sei brava, ce la puoi fare!"
Era come se quelle parole, pur essendo apparentemente pesanti, non mi facessero mai sentire in dovere, ma mi allietavano, mi riscaldavano, mi ricordavano quanto potenzialmente potessi valere, che c'era qualcuno che non solo credeva in me ma me lo diceva, ogni volta che i nostri occhi si incrociavano mi inondava di una serie di domande e quando non davo risposte esaustive me ne rivolgeva ancora altre, mai per pura e sterile curiosità, ma per quell'indiscutibile scambio d'affetto che si instaurava, per il desiderio di instradarmi, di conoscere in fondo la mia vita. Quanto mi manca quel "brava" e il modo di pronunciare la parola "importante", scandendo lentamente le vocali, quasi come se tentasse di farmele entrare dentro, silenziosamente, gradatamente, in un cuore che all'ascolto di quelle frasi di dilatava, batteva ancora più forte.
Mancanze che anche quest'anno dovrò portarmi dietro, che si cerca di attutire confidando nell'inesorabilità del tempo che lava ogni cosa. Ma la verità è che sebbene questo tempo lavi, c'è sempre un alone che resta, che non va via, come quelle mancanze a cui necessariamente dovrai abituarti, che da vortici il tempo muterà in vuoti sempre più piccoli, che non si annulleranno mai del tutto ma che in certi momenti avvertirai addirittura più bui e profondi del solito. Perchè in fondo ti adatterai, ed adattarsi non appaga mai completamente. Ed è anche assurdo dire che le persone vanno via con il loro corpo ma ti resteranno accanto con il loro spirito, perchè in certe giornate sarà proprio la presenza carnale, il toccarsi, il parlarsi a mancare come l'aria che sarai costretta a respirare nonostante sia rarefatta. Le persone, il regalo più bello che la vita possa donare, l'invenzione più congeniale ed intramontabile, quelle persone che con la loro presenza fanno sentire il tuo cuore più grande e più caldo, ma che andando via ti lasciano spento, freddo, come se un pezzo del tuo cuore fosse andato via insieme a loro. Ed è per questo che ci si ripromette di non affezionarsi mai troppo alle persone, di mantenerci sempre in un equilibrio precario, in un'equidistanza strategica tra noi e loro per non entrare mai troppo nell'altro, perchè così crederemo di mantenere la nostra integrità, così quando i loro corpi si allontaneranno non avvertiremo mancanze. Ma forse quella mancanza non riusciremo a percepirla perchè in fondo non avremo mai avuto presenze, in fondo il nostro cuore non è mai stato grande nè caldo abbastanza, perchè quell'incredibile scambio tra le persone, l'unico in grado di riscaldare, non l'avremo in fondo mai conosciuto. Allora dovremo decidere tra una vita in cui ci rassegniamo ad essere ciechi, muti, sordi, freddi e spenti, una vita in cui non entreremo mai troppo nell'altro restando sempre sul nostro piedistallo in un'insoddisfacente incompletezza d'animo, senza mai vivere abbastanza, senza mai sperimentare la condivisione di emozioni che la vita ci dona ogni giorno rendendole speciali talvolta per il semplice fatto di poter stringere la mano di qualcuno e proseguire lungo il nostro tragitto, ed una vita in cui troveremo invece il coraggio di aprire gli occhi, di ascoltare, di esprimerci, di sbaragliare i confini dell'equidistanza e arrivare in fondo all'anima dell'altro, avvertendo una mancanza insostenibile a fronte di un loro allontanamento, ma solo perchè quelle persone quando hanno scelto di restarti accanto con la loro presenza hanno reso più calda, emozionante, piacevole la tua vita, ti hanno reso più caldo accendendo un fuoco in grado di riscaldare chi ti era attorno solo perchè in fondo eri tu stesso a sentir caldo, a sudare per tutto ciò che ti pullulava dentro e che non vedevi l'ora di trasmettere. Mancanze dure come blocchi di cemento, ma presenze leggere come una piuma, calde come abbracci senza un perchè, belle come arcobaleni che non credevi potessero apparire in un cielo offuscato da nuvoloni grigi come la cenere, presenze che ti ricordano quanto valga la pena prendersi cura dell'altro, mancanze che sono solo la logica conseguenza del tuo darti pienamente, del tuo vivere con intensità senza mai stancarti, mancanze che quanto più grandi e laceranti saranno più ti faranno capire quanto avrai in fondo vissuto. Abbiamo solo questa vita, allora va vissuta, con presenze roventi e mancanze laceranti, con un io che trabocca. Oppure esistere, con finte presenze e mancanze inesistenti, con un io che aleggia come fantasmi.