giovedì 31 gennaio 2013

Crederci nonostante tutto.

Penso che ognuno possa sforzarsi di credere in qualcosa, ma spesso per quanto ci si possa imporre le nostre convinzioni saranno dettate dal bagaglio delle nostre esperienze precedenti che comprenderanno scelte di vita, circostanze che ci abbiano visto vincenti o sconfitti, persone che nelle loro piccole sfaccettature abbiano colorato la nostra vita di un nero come la pece o tinte variopinte come fiori di primavera.
Perchè per quanto ci si sforzi a porre il nostro io al centro di tutto come se ciò che c'è attorno non riesca nemmeno a sfiorarci, in realtà questo mondo esterno condiziona tutti, e direi, soprattutto i cinici che continuano a raccontarsi la storiella del "sto bene così, sono meglio di tutti voi, non ho bisogno di nessuno se non di me stesso, andate al diavolo! ", da cosa in fondo avranno mai potuto incamerare questa loro convinzione?
Se una persona viene idolatrata per un'intera vita dagli altri che continueranno attraverso frasi o atteggiamenti a dargli conferma di quanto sia bello, bravo, simpatico ed intelligente, quella persona, pur non avendo le doti millantate, se ne convincerà al punto tale da non pensar mai di essere invece qualcosa di diverso e magari se nella sua vita avrà avuto la fortuna di incrociare soltanto una o al massimo due persone che avranno voluto sfoggiare la loro idea contrastante, queste persone non saranno credute, o a limite saranno la classica eccezione alla regola, venendo catalogate come "persone sbagliate", "persone che non ti hanno compreso", perchè quella persona, avendo solo in rare occasioni ascoltato qualcosa di diverso, continuerà a pensare di essere sempre bello, bravo, simpatico ed intelligente, ma non perchè creda particolarmente nei propri mezzi, ma perchè in fondo non gli si sarà mai presentata l'occasione concreta di analizzarli, facendosi bastare la voce della maggioranza, essendo condizionato da tutto questo senza nemmeno esserne a conoscenza. 
E così se ad una persona per un'intera vita viene detto di starsene in silenzio, la stessa crederà che parlare non sia importante, o troverà altri mezzi per farlo quando ne avvertirà il bisogno che non sia il proferire parola. E così se tutti quelli che sono attorno a te ti ripetono quanto sia fallito te ne convincerai al punto da non credere di poter vincere mai o viceversa.
Se nella tua vita hai conosciuto persone che in te si sono avvolte come ad un lenzuolo profumato senza mai lasciarti andare e senza mai pensare di abbandonarti, dubiterai del fatto che molte persone invece siano capaci del gesto diametricalmente opposto a quello che invece a te è stato riservato.
Ma se invece nella tua vita hai sempre assistito in veste di umile spettatore o di indiscutibile protagonista alla precarietà degli eventi, ad assaggi prelibati che però non ti hanno mai visto sazia abbastanza, a persone che in te si sono avvolte come attorno ad un lenzuolo che poi non facevi a tempo ad annusare che aveva già perso il suo profumo, a persone che da nuove in poco tempo erano riuscite già a portarsi addosso la puzza di stantio, a persone che hanno pronunciato un "ti amo" e con la stessa leggerezza dopo pochi giorni hanno fermamente cominciato a negartelo, a persone che in punta di piedi o rumorosamente sono entrate nella tua vita per poi improvvisamente dissolversi nell'aria come bolle di sapone senza darti il tempo di chiedere spiegazioni perchè ti hanno in fondo imposto il silenzio che col tempo hai cominciato a farti bastare, in cosa potrai mai credere o non credere? Crederai nel poco che non basta mai, nella fugacità come un treno in corsa su cui farai a mala pena in tempo a salirci e per rischiare talvolta ti schianterai sulle rotaie, crederai che non ci si può sedere a tavola per ore alzandoti solo quando sarai sazio perchè sei sempre stato portato a miseri buffet dove l'unica prerogativa era semplicemente assaggiare, crederai che tutto ciò che apparentemente possa profumare di lavanda in breve tempo potrebbe trasformarsi nella peggior puzza che ti sia mai passata sotto il naso, le parole le ascolterai senza mai crederci fino in fondo, nemmeno gli abbracci riusciranno a dirti qualcosa, crederai che nessuno vorrà restare e che da tutti, nessuno escluso, potrai aspettarti qualsiasi cosa, anche becere ed ingiustificabili sparizioni ove addirittura il silenzio sarà così rumoroso da perforarti i timpani. Ma non ditemi che questo approccio alla vita sia normale. Non ditemi che il non avere nessuna aspettativa sia appagante, che il lasciare che sia senza mai stringere le redini sia gratificante, nè che dobbiamo aspettarci di tutto dagli altri, anche quello in cui non vorremmo mai credere che le persone siano in grado di compiere, perchè non è normale l'essere classificati come persone per i soli tratti somatici ma poi assumere le vesti di fantasmi o risultare più fastidiosi di merde di cani che si incastrano sotto le suole delle scarpe. Forse il miracolo si verifica quando riusciremo a non farci condizionare, ma probabilmente dovremmo annoverare tra le possibilità quella di isolarci dal mondo, spegnerci, svuotarci di tutto, attualmente non troverei una diversa alternativa. O è possibile che si verifichi quando riusciremo a credere in qualcosa nonostante tutto, ma è proprio il "nonostante" il gradino più alto da dover superare, perchè è come spiegare ad un cieco la sinuosità delle colline, la lucentezza di un cielo terso, la compenetrazione del rosa, del giallo, del rosso e dell'arancione che lascia spazio all'imbrunire. Ma credo che se qualcuno si armasse di buona volontà, restando per ore, giorni, settimane, anni, come se il tempo non fosse una priorità, a spiegare a quell'uomo affetto da cecità ciò che non ha mai visto, probabilmente pur non riuscendo a spalancare gli occhi comprenderà ed assorbirà ogni minuziosa descrizione, sino a pensare di aver recuperato la vista, nonostante tutto, perchè l'immaginerà ad occhi chiusi, ne percepirà i sapori, nè annuserà i profumi. E' questo il più grande miracolo che può un uomo verso un altro, e questo non sa di divino, ma è profondamente umano. Ed il punto è sempre lo stesso: dovremo dare agli altri la possibilità di inculcarci nuove idee, le stesse in cui potremmo credere come no, ma certe convinzioni saranno in noi radicate perchè sono state le persone, nel modo a loro noto, a trasmettercele, o gli eventi, ma in fondo anche quelli nascono, vivono e muoiono entro una cerchia di persone che avremo avuto la fortuna o meno di incrociare.
Ma ai miracoli intesi in tal senso in fondo non ci si crede più perchè in fondo non c'è tempo. Chi vorrebbe perdere il suo prezioso tempo a raccontare della bellezza di paesaggi a chi non ha la vista? Credo che qui scatti la volontà o semplicemente il bisogno dell'essere "migliori", mai di qualcun'altro, ma semplicemente di ciò che potenzialmente potremmo invece essere. Non c'è tempo perchè in fondo non c'è desiderio, perchè in fondo è normale ciò che sa poco di una certa umanità e soltanto pochi non temono di essere inseriti nel girone degli "anormali". Ecco perchè è complicato "credere in qualcosa nonostante tutto", troppa fatica, troppi rischi, troppo di tutto che potrebbe rivelarsi niente.
Ma ad una convinzione oggi sono arrivata. Mi dicono di "saper scrivere" e allora me ne sono convinta, fin quando da giorni un pensiero mi si è inculcato autonomamente nel cervello: il non riuscire più a farlo trasmettendo qualcosa, come se avessi così tanti pensieri da non riuscire nemmeno a districarli. Ma forse uno dei tanti, al di là di ciò che possa arrivare e al di là del fatto che possa essere condiviso, l'ho scritto, comunque, nonostante tutto. Non so se si tratti di un "miracolo" o semplicemente di un crederci avendo superato il gradino più alto del nonostante tutto, o presumibilmente, di entrambe.

mercoledì 30 gennaio 2013

Partenze e saluti.

Nella mia vita ci sono due costanti: partenze e saluti. 
Spesso sono partita io, qualche volta ho visto anche partire, con l'unica differenza che le mie partenze mi hanno visto sempre tornare, con tristezza e rammarico, ma alla fine, sono tornata, gli altri molto spesso non l'hanno fatto e mi hanno lasciato su di uno uscio della porta ad aspettare che si aprisse fin quando poi ho compreso che era necessario chiuderla.
Ho sempre salutato e l'ho fatto pronunciando frasi che in fondo volevano trovare conferme nell'altro, alcune che non necessitavano di tante parole, altre che hanno lasciato spazio ad un silenzio che solo col tempo ho capito che mi stava dicendo che non avrei dovuto chiederle, perchè in fondo non esistevano.
I miei saluti coincidevano con un "Ciao, ci vediamo presto", nonostante quel ciao talvolta si sia tramutato in un addio ingiustificabile, quel ci vediamo presto era invece per prendere in giro me stessa, per quel mio solito vivere nell'attesa, pur conoscendone in fondo l'epilogo, pur sapendo che non ci saremmo più visti, pur sapendo che presto tutto sarebbe stato spazzato via come le foglie d'autunno per lasciar spazio all'inverno, al fresco venticello primaverile ed infine all'estate, le stagioni che con il loro alternarsi avrebbero reso la mia immagine sempre meno nitida, una persona da dimenticare.
I miei saluti hanno visto porte sbattute e telefoni che continuavano a squillare a vuoto senza nemmeno lasciare un messaggio in segreteria.
I miei saluti si sono sempre fusi con abbracci. Per me l'abbraccio è importante più di ogni altro atto fisico. Parlo di quelli così stretti da farti mancare il fiato, di quelli dove non sai mettere le mani e allora le poggi sulla schiena dell'altro, chinando il capo sulla spalla, in un avvicinamento di busti così stretto che è come se i corpi si compenetrassero, come se non ci fosse bisogno di alcuna penetrazione perchè questo gesto bastava per sentirsi l'uno appartenente all'altro, come se un pezzo di anima si fosse fuso con quella altrui per danzare insieme. Ho dato anche abbracci che vorrei dimenticare, di quelli che dai solo tu pur non percependo il calore dell'altro, pur constatando che le mani altrui pendono senza mai appoggiarsi alla schiena, perchè sono fredde, vuote, come l'anima di chi ti sta dicendo addio e vorrebbe che tu non ti avvicinassi perchè nell'abbraccio non crede o ci crede così tanto al punto da dovertelo negare.
In fondo ho proprio innescato io questo meccanismo delle partenze, dei saluti, del seminare senza mai mettere radici, del tornare dove tutto era iniziato, ricominciando sempre da capo, con pochi superstiti o da sola, coltivando l'idea che nessuno resta e che tutto di punto in bianco potrebbe finire, come un libro, un film, una tazza di cioccolata calda, lasciandoti in bocca l'amaro, il dolce o il salato, a volte la sensazione che avresti desiderato un epilogo diverso o che tutto sia in fondo finito troppo presto.
Ma oggi non lo capisco. Perchè mi dico che dopo tante partenze, ritorni, saluti sono diventata esattamente questa. Ma forse sono anche diventata una persona che sa già a priori che il suo ciao potrebbe essere un addio, che lei partirà ma sicuramente tornerà ritrovando quei rapporti che non necessitano di conferme ma timorosa di perderne altri che probabilmente non torneranno e allora dovrà dire che è la vita, che va bene così, che tutto è tremendamente temporaneo, che bisogna vivere in fondo senza aspettative per non restare delusi, che tutto dovrà scivolarti addosso con distacco, pur sperando in fondo di avere torto, almeno una volta.
 
Non so se ne è valsa la pena correre invece di restare perchè si temeva di aver pazienza e che nulla sarebbe contrariamente arrivato.
Tutte queste partenze e questi saluti li ho voluti nella stessa misura in cui poi li ho detestati. Perchè in fondo ho innescato io tutto questo, io ho deciso di partire e deciso il momento in cui sarei tornata, ho deciso il momento in cui avrei dovuto salutare, ho assunto un atteggiamento che poco sapeva di certezze eppure fremevo al pensiero di non poterne avere. In fondo mi sono convinta che queste due costanti facessero parte di me, ma in realtà me le sono soltanto imposte quando pensavo che fossero l'unica alternativa, quando avevo ferite dappertutto, sensi di colpa che non riuscivo a lavare, bisogni di cui mi si negava il soddisfacimento.

Ma allora, è stato proprio necessario imporsi di abituarsi a tutto questo?

lunedì 28 gennaio 2013

Sorridere è essere belli.

Credo che la bellezza debba far sorridere.
Sarà bello il sole che ti riscalda in un pomeriggio d'estate che ti costringe a socchiudere gli occhi e provoca una smorfia sul viso, proprio simile ad un sorriso.
Trovo bello quel sorriso che compare sul volto di chi è come se volesse pronunciare la frase "E' tutto qui quello che volevo dire" dopo essersi confidata con un'amica, aver sbattuto i pugni per il troppo nervosismo, aver pianto di stanchezza, lasciando senza alcun imbarazzo scorrere lacrime rendendo gli occhi lucidi, come se il cuore stesse sussurrando "Grazie", come se quel sorriso successivo alle lacrime fosse un'arcobaleno dopo una tempesta, che riesca a racchiudere una bellezza incommensurabile.
Trovo bello quell'accenno di sorriso tra chi si perde fra la folla per poi ritrovarsi.
Trovo bello il sorriso di chi sa che c'è qualcuno fuori la porta ad aspettare.
Trovo bello il sorriso di chi nell'esprimersi paleserà il proprio sapere, ed il sorriso di chi dall'altra parte starà ad ascoltare.
Trovo bello il vento che spazza le foglie.
Trovo bello il sorriso degli innamorati, di chi è curioso di scoprirsi.
Trovo bello tutto ciò che in fondo faccia sorridere, perchè forse la bellezza, quella eterna ed intramontabile, consiste proprio in questo.
Ma noi, che alla cattura dell'essenza e alla scoperta della verità non siamo più così abituati, ci accontenteremo di una piacevole apparenza, che non è bellezza, perchè in fondo sarà fugace. 
E la bellezza, pronunciata con vocali aperte ed il suono rimbombante delle doppie consonanti, può essere eterna, proprio come un sorriso, quella smorfia delicata che compare sul viso di tutti, che è bellezza.
Ma siamo stati così imbottiti dell'idea che tutto sia profondamente temporaneo, che all'eternità non ci si crede più. Forse è anche per questo che si preferisce inciampare in piacevoli apparenze, vuote, spente, che non è detto che facciano sorridere.
Forse è proprio per questo che ci lamentiamo sempre troppo, ridendo sempre meno. 
Ma ogni sorriso negato è un pezzo di bellezza che ci abbandona.
Per essere belli bisogna anzitutto sorridere.

venerdì 25 gennaio 2013

I primi della classe.

A scuola sono sempre stata la prima. 
Ero in prima elementare e la mia insegnante nell'ora di italiano ci teneva a farmi leggere sempre per prima così che i miei compagni mi vedessero come esempio. 
Una volta quando ero in prima elementare ricordo di essere stata prelevata da un'insegnante di seconda, mi portò nella sua classe per farmi risolvere delle operazioni di matematica che i suoi alunni non riuscivano a risolvere. Per me invece fu più semplice del previsto, e ricordo che mentre ero alla lavagna, sentivo il vociare dei bambini di seconda elementare dietro le mie spalle che silenziosamente sussurravano: " Com'è brava, ma come ha fatto?" e l'insegnante che con voce perentoria esclamava: "Prendete esempio da questa bambina!"
Uscii poi da quell'aula con volto chino e le spalle incurvate e credo che sul mio volto si leggesse che in fondo non avevo fatto niente di speciale, niente per cui valesse in fondo la pena di riconoscermi un valore degno di nota che potesse pormi su di un piedistallo per potermi distinguere. 
Ed è proprio questa immagine che porto con me, da sempre, perchè è in effetti proprio la stessa che riscontro attualmente quando la mattina mi sveglio e guardo la mia immagine riflessa allo specchio.
Perchè sono stata sempre la prima della classe alle scuole elementari e alle medie, al liceo ero considerata non la prima ma una delle più brave, quei punti di riferimento a cui tutti potessero appigliarsi, e così anche all'università. Ma in fondo un certo valore non me lo sono mai riconosciuto. Ho sempre pensato che fosse semplice assumere il ruolo della prima della classe, perchè in fondo basta impegno e buona volontà per farti aprire un libro ed inglobare nozioni che ti renda agli occhi degli altri un esempio da emulare. Ma talvolta l'essere primi in questo modo non sempre appaga come vorresti. Perchè diventi un esempio e allora non puoi sgarrare, ti senti quasi in dovere di rispettare il ruolo che in fondo tu non hai mai preteso, nè forse riconosciuto, ma sono stati gli altri a farlo per te e spesso senza nemmeno chiederti il permesso. E' come se gli altri riponessero in te delle aspettative che sebbene tu consideri troppo grandi per te o non pienamente affini, è come se le volessi far tue comunque sforzandoti il doppio per non deludere nessuno. E mentre il tuo cervello a fatica preserva l'idea di non voler deludere nessuno, intanto stai deludendo quella voce che dentro di te ti imporrebbe di spogliarti per lasciare che non siano ruoli precostituiti ma la tua reale natura a prevalere.
A scuola ho sempre avuto buoni insegnanti e forse è per questo che mi è risultato semplice diventare la prima. Ma nonostante possa sembrare assurdo, talvolta avrei tanto desiderato, e tuttora, non esserlo, così da poter essere libera di esplicarmi, senza che alcuna etichetta ti imponesse di sostenere un ruolo che contrariamente a quanto si possa pensare, è oltremodo difficoltoso in certi momenti. 
La prima a scuola e nella vita? Nella vita che posizione rivesto? Non esistono libri ma soltanto esperienze e saranno le persone a ricoprire il ruolo di insegnanti, quel ruolo che spesso ti verrà girato per camminare da sola, per mettere a frutto ciò che avrai imparato e che in alcuni casi ti verrà chiesto di trasmettere. Posso dire che le esperienze non mi sono mancate. Quelle esperienze che mi hanno portato a toccare il cielo con un dito, per poi lasciare che il mio sedere sprofondasse nel fango. Quelle esperienze che mi hanno fatto battere il cuore così forte sino a farlo scoppiare, fino talvolta a farlo fermare. Quelle esperienze che ho condiviso con altri, ma tante altre da sola. Quelle esperienze che mi hanno resa più forte, altre tremendamente timorosa. 
Ho incontrato persone che sono stati per me degli insegnanti modello, di quelli a cui pensi come esempi da emulare. Ma ho incontrato anche persone assolutamente banali, poco interessanti, quegli insegnanti tremendi che non avranno mai la tua stima ma che in fondo non riesci a non temere. Persone che mi hanno idolatrato facendomi leggere davanti a tutti chiedendo agli altri di seguire le mie orme, persone che mi hanno chiamato alla lavagna per risolvere un'equazione che non sono riuscita a risolvere, che hanno ridotto la mia autostima, facendomi sprofondare in una vergogna che non aveva ragion d'essere eppure c'era, me la sentivo addosso, come una puzza che non riesci a togliere. Ho incontrato persone che non mi hanno insegnato nulla, persone che mi hanno insegnato qualcosa o tutto quello che c'era da sapere. Persone che mi hanno insegnato che la vita è bella, altre che la vita può talvolta tramutarsi in un inganno, quell'inganno di cui loro stessi si facevano portavoce. Persone che sono diventate dei profumi che non facevo a tempo a spruzzarmi addosso che evaporavano nell'aria. Per qualcuno ho sentito l'esigenza di annusare vecchi indumenti che ne conservassero la fragranza, per altri ho sentito invece il bisogno di gettare quei vestiti per non sentirne più l'odore, per non ricordare di quanta puzza possa esserci in un profumo che con l'andar del tempo non apparirà dolce come appena spruzzato. Ho incontrato persone come insegnanti che giungono in aula dicendo alla platea di restare in silenzio perchè hanno delle faccende da sbrigare, leggere un giornale, o semplicemente un lieve mal di testa che impedisse di fare lezione, quelle persone che non danno tempo a te ed inevitabilmente anche a loro stessi, o come quegli insegnanti per cui basta un intervento da posto per capire se tu sia preparato o meno, per mancanza di tempo, o semplicemente di desiderio di comprendere, senza mai andare oltre.
Allora nella vita posso dire di essere stata insegnante ma spesso ho sentito l'esigenza di sedermi tra i banchi e lasciare che la vita mi insegnasse ciò che c'era da sapere per sentirmi più preparata. Sono stata l'alunna modello ma spesso anche la più impreparata. Ho maturato il bisogno di far battere forte il cuore come quando si tocca il cielo con un dito, un bisogno che ricerco costantemente come fosse il motore della mia esistenza, nonostante il timore di sbucciarmi le ginocchia, con quella costante ansia sul come gestire una vita, sul dove andare ed in cosa o chi credere, nonostante per amor proprio abbia dovuto talvolta fermare questo cuore che altrimenti mi avrebbe fatto troppo male nel continuare a battere. Ho maturato il bisogno di ascoltare e di essere ascoltata, nonostante abbia spesso incrociato chi tempo per farlo non voleva darmene, perchè è come se la gente non abbia mai tempo o mai desiderio, il che equivale a dire lo stesso.
Nella vita in fondo non ci sono libri né certezze, le tue guide non riuscirai sempre a riconoscerle e spesso dovrai ergere a guida te stesso per timore di inciampare. Ci sono solo strade, viottoli, salite e discese. Ci sono paesini e grandi città. Ci sono persone.
Ed in questo turbinio di lezioni come esperienze e di persone in veste di insegnanti, mi sono a volte sentita la prima ma molto più spesso l'ultima, altre volte invece la mia posizione non sono riuscita a definirla. 
La vita è una lezione che non si smette mai di imparare, che quando meno te lo aspetti ti interrogherà e non è detto che tu sia sufficientemente preparato, una lezione che dovrai ascoltare da altri o spesso tenere tu, come un insegnante mai preparato abbastanza. Ma chi può dirsi in fondo il primo della vita? Credo nessuno. Allora forse servono braccia forti, petto in fuori ed un volto fiero per tuffarsi nel mare della vita, ma per nuotare e cavalcare le onde talvolta occorre farsi un bagno di umiltà, incurvare le spalle, chinare il capo, lasciare che siano gli altri a riconoscerti un valore che tu potrai vedere come fosse niente di speciale ma soltanto un dovere. E' forse soltanto così che si impara, un modo che non ci farà essere primi perchè di primati la vita non ne conosce, ma nemmeno gli ultimi, semplicemente così, semplicemente persone e non pagliacci.

mercoledì 23 gennaio 2013

Afferra il dito del dottore mentre sta nascendo: una metafora di vita.

Afferra il dito del dottore mentre sta nascendo. La fotografia scattata dal padre fa il giro del mondo, catturando inevitabilmente la mia attenzione. Questa fotografia trasuda vita, trascinando via con sé il suo più intrinseco senso, non solo per essere stata scattata nel topico momento del parto, ma per questa mano, nuda, fragile, così piccola, che non appena intravede uno spiraglio di luce si aggrappa ad un dito più grande per cominciare la sua vita.
Manifesto, questo gesto che si intinge di profonda commozione, di una recondita verità: il bisogno innato di aggrapparci a qualcuno o qualcosa che ci infonda la fiducia necessaria per abbandonare il buio e venire alla luce. Un bisogno che si palesa sin dalla nascita per poi accompagnarci per tutto il resto della nostra vita. Un bisogno dei piccoli, ma talvolta soprattutto del mondo adulto, perchè il ciclo della vita non è semplicemente quella fase compresa tra la nascita e la morte biologica di un essere umano, ma può iniziare in ogni momento, ad ogni età, quando esperienze passate ci abbiano visto morire maturando dentro di noi l'esigenza di rinascere ancora. Un bisogno che non deve confondersi tra i germogli di una letale dipendenza, perchè quest'ultima punge, ci fa aggrappare a qualcuno o qualcosa in cui la nostra personalità viene inevitabilmente divorata, annullata, destinata comunque al buio, non è un qualcosa di profondamente innato e naturale, ma cresce successivamente quando il sentirci soli ci svuota, bistrattando la natura umana. E' invece un bisogno ingenuo, delicato, spontaneo, che nasce dai semi piantati nel cuore per poi espandersi silenziosamente nell'anima umana più piena. Un bisogno che i cinici hanno imparato a negare, celandolo dietro l'affermazione "Non ho bisogno di nessuno, sto bene così, sto bene da solo", senza che l'altro carpisca dietro quella negazione del bisogno il reale significato di quella frase, forse un bisogno ancor maggiore di chi avrà il coraggio di esprimersi. Perchè anche quella minuscola mano si sarà staccata dal dito per cominciare a muovere da solo i suoi primi passi, ma come ogni creatura che impara a camminare avrà avuto la necessità di reggersi a qualcosa per timore di cascare. Probabilmente sarà anche caduto provocandosi degli enormi bernoccoli sulla fronte, ma alla fine sarà riuscito ad andare per la sua strada per le continue cadute il cui numero si sarebbe forse triplicato in mancanza di appoggi.
Non è forse questa la più incredibile metafora della vita? 
La differenza è che un bambino riesce a cogliere il bisogno nella sua naturale essenza, perchè non conosce vergogna, al contrario si dimenerà se qualcuno non correrà presto in suo aiuto, avendo tutto il necessario a sua disposizione per aggrapparsi e soddisfare quel bisogno. Gli adulti, che dal mondo delle loro esperienze hanno assimilato stereotipi, inganni, orgoglio e vergogna, quanto di meno umano possa esistere, forse si dimeneranno, ma lo faranno nel silenzio della loro anima senza mai riuscire ad esprimersi, bistrattando l'unico elemento umano che accomuna tutti, consci, nel caso, di avere a disposizione solo qualcosa o qualcuno cui aggrapparsi perchè la loro mente nel buio di una gelida stanza non sarà in grado di nutrire l'immaginazione, perchè in fondo un adulto farebbe meno tenerezza di un bambino, un adulto nell'immaginario collettivo può riuscire a stare da solo. Ma se forse capissimo che il ciclo della vita non è unico ma in un'intera vita potremmo disporne anche di dieci, cento, mille, se riuscissimo a carpire la ciclica essenza della vita, potremmo forse capire che il bisogno, che non è dipendenza, di aggrapparci a qualcuno o qualcosa per trovare la spinta per venire alla luce, è profondamente umano, innato, di tutti, soprattutto di chi continua a negarlo. E l'umanità ha ben poco a che fare con una disumana vergogna. 
In un mondo ideale dovremmo assimilare la saggezza dei nostri nonni e la tenerezza che sa di verità ed umanità dei bambini, dimenticandoci di essere posizionati esattamente al centro di questo ciclo che non si arresta mai, che può finire ma che inizia di continuo.

martedì 22 gennaio 2013

Cotone su seta.

Tempo per telefoni muti, porte sbattute ed un buio che divora non ce ne è stato nemmeno.
Perchè non mi hai dato tempo di telefonare, nè di sbattere una porta, ma è giunto subito il tempo di un ingiustificabile silenzio in una stanza dalle pareti bianche, ove trapelavano spifferi attraverso le fessure delle finestre, osservando con distacco dietro i vetri le foglie ingiallite spazzate via dal vento, quelle finestre che ho preferito lasciar chiuse per timore di conoscere la forza del vento che potesse farti mancare la terra sotto i piedi, per timore di essere spazzata via come quelle foglie anche se in fondo tu l'avevi già fatto, nonostante avessi mantenuto le finestre chiuse.
E forse ti detesto nella stessa misura in cui io adesso stia detestando me stessa.
Ti detesto per le frasi non sussurrate ma anche per quelle pronunciate con fermezza che come delle tempere ad olio sono restate sulla tela senza che la combinazione di tutti quei colori lasciasse spazio all' immaginazione.
Ti detesto per avermi dato la conferma di convinzioni di cui avrei voluto assaporarne per una sola volta il torto. E mi detesto perchè in fondo non è un cuore ferito a parlare, bensì un orgoglio di donna bistrattato, il desiderio di voler essere la prima, soltanto questa volta, almeno questa volta, come forse mai è successo.
 E mi detesto perchè della tua presunta felicità non riesco ad esser felice anch'io e per questo mi sento di valer poco in veste di persona rancorosa, come un cestino che non fa a tempo a riempirsi per poi essere svuotato. E forse mi detesto perchè dovrei tacere, forse ti detesto perchè hai assimilato tutte le mie frasi sull'amore e di quanto sia indispensabile crederci per rinascere ancora, le hai apprese come un alunno dalla sua insegnante, per poi seminare e coltivare i semi del tuo amore con chi fortuitamente è giunta subito dopo. Mi detesto perchè di questo tuo modo di utilizzarmi come strumento per apprendere come si riesca ad essere pronti al cospetto dell'amore non riesco a farne motivo di vanto.
Mi detesto perchè in fondo sapevo sin dall'inizio di non c'entrare nulla con te, ma ho voluto provarci lo stesso, ritagliarmi uno spazio che assomigliasse più che altro ad una toppa di cotone ricucita su di un tessuto di seta. Ma la verità è che se non c'entravo niente con te, è valso lo stesso anche per il precedente, e per quello ancora prima, e ancora prima, e ancora. Temo di esser sempre stata una toppa ricucita maldestramente su di un vestito dal tessuto diverso dal mio. 
Allora, alla fine, io con chi c'entro?

Cos'è la "cazzimma" per un napoletano.

Non so quanti di voi napoletani si siano trovati a parlare con qualcuno proveniente da un'altra città d'Italia e nel pronunciare la frase "Uaaaa, che cazzimma!" si siano sentiti puntare gli occhi addosso, come se provenissimo da Marte, e con lo sguardo attonito ed il tono perplesso si siano sentiti rivolgere la domanda "Che cos'è la cazzimma?", e noi rispondere "Come te lo spiego?E' impossibile!"
In effetti è notevolmente complicato. Il napoletano è noto per il suo spiegarsi con estrema concisione, esprimendo concetti lunghi grazie la fusione o la creazione di termini dialettali che ne riassumono il fulcro.
Dal termine cazzimma si ricava l'aggettivo "cazzimmoso" o "cazzimmosa" a seconda del sesso dell'interlocutore. In effetti potremmo definire la cazzimma una fusione di scarsa generosità, lealtà, onestà, un atteggiamento di menefreghismo che si sposa ad una carenza di correttezza, un atteggiamento di furbizia opportunistica, un pensare esclusivamente ai propri interessi danneggiando spesso gli altri, ma come direbbe un napoletano "non è solo questo, c'è qualcosa in più, la cazzimma è un'altra cosa!"

Ma allora, cos'è la cazzimma?

La cazzimma è quando da piccoli, mentre si giocava, un bambino particolarmente capriccioso non metteva a disposizione i suoi giocattoli, o quel bambino che, mentre si stava giocando al pallone, decideva di punto in bianco di prenderlo e portarlo via.

La cazzimma è quando qualcuno, nel cuore di un discorso che desta la nostra attenzione, omette volutamente dei dettagli che se svelati potrebbero cambiare il nostro punto vista, un segreto che non vorrà rivelarci, cedendo il passo alla classica affermazione "Che CAZZIMMA che TIENI!"

La cazzimma è quando un arbitro chiama un fallo che avrebbe potuto anche non segnalare.
La cazzimma l'ha mostrata Drogba durante la partita di Champions League, Chelsea Napoli, quando negli ultimi minuti di gioco per temporeggiare, accasciatosi al suolo, ha finto di non riuscirsi a rialzare, e all'inquadratura del suo volto coperto dalle mani e delle sue dita che si aprivano per gettare l'occhio sulla decisione arbitrale, molti dei tifosi avranno di certo esclamato "Che cazzimma", qualcuno l'ha definita "Esperienza dei grandi giocatori", ma per noi era in primis cazzimma, non si discute.

Quando a scuola il nostro compagno di banco non ci passava il compito, o se, come spesso sarà capitato, il primo della classe non si offriva per essere interrogato e salvare il resto della classe impreparata, in quel caso non è soltanto cazzimma, bensì una CAZZIMMA ESAGERATA. Perchè il napoletano per rafforzarne il concetto, aggiunge spesso l'aggettivo "esagerato", ed in questo caso è assolutamente doveroso per intendere che quel compagno di classe ha una cazzimma che parte "dai capelli fino all'ultima unghia del piede".

La cazzimma è del professore universitario che in seduta d'esame ci rivolge la classica domanda complicata di cui ignoriamo la risposta, o del nostro datore di lavoro, che pur conoscendo le nostre esigenze, volutamente decide di non venirci incontro.

In fondo c'è un po' di "cazzimma" in ognuno di noi, praticata quotidianamente senza nemmeno accorgercene.
La "cazzimma" è un termine coniato nel napoletano, ma che in fondo appartiene a tutto il mondo, Lega Nord compresa, perchè come direbbe un napoletano "Nella vita, c vò nu poc e cazzimm!"