sabato 21 novembre 2015

Occhi sani non conoscono nemici

Ho immaginato di svegliarmi un giorno ed un tratto percepire sulla mia pelle in rancore riflesso negli occhi di perfetti sconosciuti. O di essere io a possedere quegli occhi inquisitori.  

L'ho immaginato mentre lei mi diceva: "Dopo quello che é successo a Parigi, ce l'hanno tutti con noi", raccontando di essere stata verbalmente aggredita da un uomo mentre si trovava in ospedale con sua madre per una visita medica.
Parlando in prima persona, ma al plurale, presupponendo che dall'altra parte ci sia un "voi", ed in mezzo un deserto a separarci. Lei era il noi, io ero il voi. Intercambiabili a seconda del punto di vista dell'interlocutore.

Lei è una mia collega, cui ho scelto di dare un nome di fantasia. Allora facciamo pure che ve la presenti con un nome "occidentale", tipo Monica.


La famiglia di Monica è originaria del Bangladesh, ma lei è nata in un quartiere a Nord di Londra. Non so di che colore abbia i capelli, nè se li porti lunghi o corti, perchè indossa sempre un burka nero in tinta con i colori sobri degli abiti che indossa. Le chiedo spesso di insegnarmi come mettere l'eye liner con la sua stessa precisione, senza rischiare di sembrare un panda ogni volta. Ma probabilmente, nemmeno se riuscissi ad apprenderlo, sortirebbe su di me lo stesso effetto elegante che ha sopra i suoi occhi neri e dal taglio lungo.

In pausa pranzo evitiamo i ristoranti cinesi, perchè dice che non si fida. Potrebbero facilmente spacciare il pollo per halal anche quando non lo è, dice lei.

Quando andiamo al pub il fine settimana, è l'unica ad ordinare una coca cola. Tempo fa, quando ho fatto il vaccino contro l'influenza, mi ha stretto la mano mentre giravo i polsini della camicia e l'infermiera si preparava a farmi entrare l'ago nel braccio. Perchè a ventisei anni, ho ancora paura dell'ago. E lei, nonostante avesse di fronte una donna poco più grande di lei, mi ha detto sorridendo: "I'm proud of you", una volta terminato, assicurandosi ricevessi una caramella alla frutta subito dopo, come fosse un premio, come si fa per un bambino terrorizzato. 

Monica non ha mai conosciuto la guerra.
Non ha mai visto il cielo del Medio Oriente.
Non ha mai annusato l'odore della polvere da sparo.
Non sa maneggiare un kalashnikov.
Non ha un fidanzato di vent'anni più grande di lei.
Non pensa di diventare la schiava di nessun uomo. Probabilmente una madre, ma è ancora troppo presto.
Prega Allah, perchè questo è il nome del suo Dio. Ma organizza un minuto di silenzio per la commemorazione dei caduti inglesi nella guerra mondiale, cosí come per le vittime degli attacchi a Parigi.
Monica non ha la minima conoscenza sull'educazione impartita ai bambini nei villaggi sotto il controllo dell'Isis. Gliel'ho raccontato io, in modo approssimativo, dopo aver visto un documentario.
Invece lei mi ha detto che il principe dell'Arabia Saudita ha più di centoventi figli e trenta mogli, ma che nonostante il loro sangue blu, non vorrebbe mai essere tra queste, e nemmeno essere associata ad una cultura cosí estremista.

Monica è musulmana. Fa parte di quel "loro" che attribuiamo ad un popolo intero, suddividendoli per sottocategorie cui riserveremo lo stesso sguardo. Quello che attribuisce loro colpe di altri. Che li guarda con lo stesso spavento di chi crede che potrebbero farsi saltare in aria da un momento all'altro, e noi con loro. Quello sguardo che li etichetta come impositori di una cultura ed una religione pronte a smembrare le nostre.
Perchè in fondo, chi è che il giorno dopo gli attacchi terroristici di Parigi non si sia imbattuto in uno di loro e non li abbia guardati con rabbia, o semplicemente con spavento. 

Ed anche Monica ne era a conoscenza, non appena ha aperto la porta dell'ufficio, che quello non sarebbe stato un ordinario lunedí come gli altri. E l'ho capito quando ogni pretesto si è per lei trasformato in un motivo giusto per parlare della sua religione, della sua cultura, della sua gente, per spiegare il suo punto di vista, cosa che prima non aveva mai fatto. 

E lo sapeva anche lui, cui darò un altro nome di fantasia, tipo Marco. Ma che quel lunedí ha scelto di reagire in modo diverso. 
"Ho visto che hai scritto qualcosa su Parigi", mi ha detto.
Ed io ho soltanto annuito, perchè per me si trattava di un lunedí diverso dagli altri, ma pur sempre un lunedí in cui fatico per le prime ore del mattino a mettere insieme frasi di senso compiuto.
Ed allora pensando che avessi scritto qualcosa di male che non sarebbe stato in grado di tradurre, mi ha detto: "Mi dispiace, sono solo degli assassini."
Ed io, ascoltando quella frase, ho sentito il bisogno di svegliarmi sul serio tutto d'un tratto. 
Perchè l'aria era pesante e ho avvertito quanto sentisse il peso della giustificazione per qualcosa di cui lui non era colpevole. Quanto mettesse sulle mie spalle il peso di una superiorità che non desideravo possedere. 
Cosí ho rotto il silenzio aprendo la busta dei biscotti che abbiamo messo al centro del tavolo per mangiarne qualcuno insieme. È stato il primo gesto istintivo, per smorzare quell'atmosfera che più che paura, sapeva di qualcosa di irreale che intanto si consumava di fronte i nostri sguardi impotenti.

Ma è ciò che è accaduto in un lunedí che poteva essere come tutti gli altri, ma che purtoppo non lo è stato. 
Perchè io ho sempre detto di essere cristiana, loro musulmani. Ma se l'avessimo saputo, avremmo forse evitato di puntualizzarlo troppe volte, per non scambiarci pesi gli uni con gli altri, che nemmeno ci spettano. Per non aspettare risposte o rassicurazioni che non siamo tenuti ad offrire.

Ma la domanda che mi sorge spontanea non è se questa sia una guerra giusta o sbagliata. La sola idea che si faccia chiamare guerra, dovrebbe d'istinto metterci tutti uniti e puntargli il dito contro. 

Vorrei piuttosto sapere cosa state insegnando ai vostri figli o nipoti, per comprendere cosa possa insegnare ai miei tra qualche anno. 

Come faccio ad insegnare a mio figlio che quelli con la barba lunga e la carnagione scura, quelli che riconoscono in Allah il proprio Dio e ne Il Corano il loro testo sacro, sono diversi, per questo potenziali nemici?
Come faccio ad insegnare a mio figlio che gli esseri umani non sono tutti uguali, e che esistono culture superiori alle altre?
Come faccio ad insegnare a mio figlio che aggredire fisicamente o verbalmente qualcuno non è una cosa giusta, ma se il soggetto in questione è il nemico cui tutti sembrano aver dato quel volto, potrebbe essere giustificato?

Non so che state dicendo ai vostri. Io sono sicura che al mio lascerò la libertà di scegliere cosa sapere solo dopo aver sperimentato, lasciandolo solo in quest'esplorazione.

Perchè so già, con molti anni in anticipo, che alla fine lo capirà anche lui o lei. 

Che Monica e Marco non rappresentano il nemico. Che se pensiamo possano esserlo, saremo destinati a possedere occhi inquisitori. Quelli che osservano il diverso con disprezzo, rinunciando alla curiosità dello scoprire.
Spero allora che, come me, sceglierà di avere occhi sani. Che non significa svuotarsi completamente dalla paura, ma trattare tutti con grazia, non avere inutili pesi sul cuore, guardare tutti come esseri umani, per riuscire a domarla.

Ve l'ho voluto raccontare, per lasciare a voi la possibilità di scegliere da che parte stare.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

domenica 15 novembre 2015

"Nostre amour de la vie n'est qu'une vieelle liaison..."

Da poco più di quarantotto ore tutto il mondo si stringe al dolore del popolo francese.
Lo si fa un po' tutti, mentre c'è chi chiama bastardi un intero popolo: uomini barbuti, donne con il burka, bambini, tutti. Come se fosse un dato precostituito che tutti siano armati di kalashnikov o pronti a farsi saltare in aria.

Mentre c'è chi richiama chi vuole pregare, perchè piuttosto sarebbe più importante pensare.
Mentre c'è chi si azzuffa su chi abbia delle reali responsabilità.
Mentre c'è chi, alla cieca, getta nella cesta dei colpevoli tutti: dall'Oriente all'Occidente.
Mentre c'è chi è pronto a stanare l'ultima gaffe di un qualche politico di turno, per poi non risparmiarci nemmeno il commento.
Mentre c'è chi asserisce che ogni giorno si muore, non solo a Parigi.

Ed è vero che non esistono morti di serie A, B o C. Ma il pensiero che quasi 130 morti in casa nostra scuotano più di mille in altre parti del mondo, sfugge alle regole di logica anche dell'animo più sensibile, purtroppo.

Ma oggi è a lei cui ho rivolto il mio pensiero, a Valeria. Alla studentessa della Sorbona trovata morta nell'attacco al Bataclan. E non perchè la sua morte valga più delle altre centoventotto, nè di quelli che ogni giorno perdano la vita in quei Paesi che non abbiamo mai visto con i nostri occhi, ma in cui sappiamo solo che tutto ciò avviene a scadenza quotidiana.

Perchè lei incarna quello che siamo anche noi, forse, quando prepariamo una valigia per dirigerci all'estero. Quando la carichiamo di tutte le aspettative che la vita può riservarci solo se ad essa ci apriamo abbastanza. Quando decidiamo di andare in un altro Paese per studio, lavoro, o solo alla ricerca di qualcosa che sia lí ad attenderci per cambiare il corso delle nostre vite. Quando crediamo in un' Europa unita che sia pronta ad accoglierci e a cui daremo il meglio di noi. Quando crediamo in un mondo che è cosí grande da poterci districare liberamente. Quando crediamo che non esistano confini segnati da una lingua diversa, da una cultura distante dalla nostra, e forse anche da una religione, perchè, alla fine, apprenderemo tutto cosí da poterlo rendere parte della nostra quotidianeità. E quello che non possiamo imparare, cercheremo di comprenderlo, ed accettarlo, comunque.

Perchè oggi i genitori di Valeria, sono anche un po' i nostri. Quelli che supportano un figlio in ogni sua scelta. Quelli che gioiscono al solo pensiero di vederlo tornare di tanto in tanto, anche solo per vedere il letto disfatto. Quelli che si stringono, con dignità, in un dolore che non è paragonabile a nulla: scoprire che il proprio figlio non riuscirà mai più a raggiungere la casa in cui è cresciuto.

Potevamo essere Valeria, o qualcun altro. Potevano oggi essere i nostri genitori a piangere.

E sí, la paura. Quella paura che possa riaccadere. Quella che non conosce nessuna dimensione, o spazio temporale, o area geografica. Quella che non risparmia nessuno e che ci rende tutti schiavi.

Ma come diceva Marcel Proust: "Nostre amour de la vie n'est qu'une vieelle liaison, dont nous ne savons pas nous débarrasser - il nostro amore per la vita non è che un vecchio legame di cui non ci sappiamo sbarazzare".

Lasciamo che lo sia. Lasciamo che sia l'antidoto più prezioso per vincere la paura. Lasciamo che lo sia, nonostante il dolore. Questo non dovrà togliercelo nessuno. Come se si immaginasse di passeggiare per le strade sulle note della vie en rose, in un mondo simile a quello di Amelie, come se si partecipasse a jeaux d'enfants.

Il mondo è diventato un posto invivibile, ma se ci si arrende a questo postulato, significherà che avremo già perso.



Quando torni? il mio romanzo che affronta l'altra faccia della migrazione in Regno Unito, dando voce alle storie degli italiani che lasciano il proprio Paese. Disponibile in ebook su Amazon, Itunes, Scribd, Kobe, Barnes&Noble, Smashwords e Lulu.com e su quest'ultimo anche in versione cartacea.




domenica 25 ottobre 2015

Le conseguenze dell'autunno

Sarà che mi lascio cullare dalla stagione autunnale.
Dall'aria fresca, dalle foglie ingiallite che coprono l'asfalto, dalla sequenza di alberi quasi spogli che il mio sguardo segue come a volerne disegnare le curve.

Sarà che in autunno sento di mancarmi. Un po' e solo qualche volta.
Quando vorrei farmi entrare nei polmoni tutta l'aria respirabile.
Quando vorrei colorare le foglie ed immaginare di accogliere una nuova primavera in anticipo.
Quando vorrei prepararmi una tazza di cioccolata calda, solo per annusarne il profumo, perchè non ho bisogno che il suo tepore mi riscaldi le mani.

Perchè mancarsi significa perdere quella parte di sè che respirerebbe a pieni polmoni, senza mai fermarsi anche quando sono pieni, senza mai avvertirne il freddo.
Significa non riuscire a vedere i colori della natura, se non immaginando di ridipingerla su tela.
Significa cercare qualcosa, non perchè ci faccia bene, ma perchè ci siamo convinti che faccia parte della scala dei nostri bisogni, che ad ogni scadenza imposta arrivano puntuali a bussarci alla porta.
Significa che non ci manca niente. Niente che faccia pensare ad un vuoto da colmare. 

Solo quella parte, quella che si imponeva di non lasciare mai i sogni in un cassetto, che sfidava le cose impossibili perchè sapeva che un giorno sarebbe stata in grado di afferrarle, quella che alzerebbe una cornetta per togliersi dei pesi dal cuore, quella che voleva essere grande non per gli altri, nè per se stessa, ma per ciò che sarebbe stata in grado di fare. Quella parte, che a volte sembra nascondersi sotto i binari di un treno, dietro uno schermo di un apparecchio elettronico qualunque, dietro silenzi che sono come singhiozzi che ci salgono in gola ad intermittenza. 

Quella parte manca, un po' e solo qualche volta.

E non so se sia l'autunno o semplicemente la consapevolezza che occorre mancarsi.
Quando cambia la scala delle nostre priorità, quando si comprende che procedere spesso significa lasciare pezzi di te sparsi ovunque, raccoglierli senza mai dimenticarli, pur prospettando per essi una posizione differente. 

Ed è forse questa la sfida più importante: imparare a mancarsi, senza perdersi mai del tutto.
Mancarsi, senza mai lasciare vuoti.
Mancarsi, un po' e solo qualche volta.

domenica 18 ottobre 2015

Scrivete una lista di cose importanti e provate a darle un nome: sarà dignità

Ho pensato alle cose importanti. Quelle cui non potrei mai a fare meno. Di quelle che porteresti sempre con te, perchè ti completano e ti fanno essere quella che sei.
Nonostante ti portino via del tempo. Nonostante siano imperfette. Nonostante sai di non poterle mai concludere del tutto, perchè forse ci sarà sempre qualcosa da aggiungervi.

Ho pensato che scrivere sia una cosa importante, nonostante mi rubi del tempo. Ma credo che sia il tempo più prezioso che io abbia mai impiegato per me stessa.

Credo che conservare yogurt scaduti nel frigo o cianfrusaglie in ogni borsa o essere sempre in ritardo, siano cose imperfette. Ma allo stesso stesso non potrei mai rinunciarvi. Perchè se un giorno mi svegliassi e decidessi di fare spazio nel frigo, di gettare tutta la robaccia che conservo in ogni borsa, o di trovarmi in un posto con dieci minuti d'anticipo, probabilmente non mi riconoscerei. Pertanto, anche queste sono cose importanti. Quelle che mi concedono il lusso di elencare una lista di difetti che ho imparato a farmi andare bene lo stesso.
Perchè la coscienza di essere imperfetta mi fa pensare che anche gli altri lo siano, cosí come certe circostanze, imparando ad accettarle cosí come sono, come ho fatto per me stessa.

Nutrire ambizioni è un'altra cosa importante, ma una di quelle che sai bene non giungeranno mai ad un approdo definitivo. Perchè cresceranno sempre dentro di te, come rami di una quercia pronti a fortificarsi con l'andar del tempo. Man mano che vedrai un ramoscello crescere, ne vorrai sempre un altro, ed ancora un altro, e sempre più grande.

Ho pensato che ognuno abbia la propria lista e che ciascuno sia in grado di riassumerla in una sola parola, quella che sussumerà tutte le altre.

La mia parola importante è dignità.

Scrivere mi dà dignità, perchè se non lo facessi mi sentirei incompleta. È una di quelle cose importanti a cui non potrei mai dire basta. Perchè scrivere mi fa essere quella che sono, nel momento in cui desidero esserlo. Conquisto un pizzico di dignità ogni volta che le mie dita impugnano una penna, che l'inchiostro macchia un pezzo di carta qualunque, che le mie dita scivolano sulla tastiera. Ogni volta che qualche mio pensiero prenda forma in una serie concatenata di parole, ogni volta che mi accingo in una qualche impresa più elaborata. Ogni volta io sono lí. Ad aspettare le parole, a far scorrere i pensieri, a metterli insieme in modo naturale, a creare quello che nel mondo non riesco a trovare o forse a vedere, ma che lí invece ho il potere di immaginare. Sono lí, con me stessa, perchè quella è una cosa importante e merita che io ci sia dentro, completamente.

Trascinare cianfrusaglie nella borsa, conservare yogurt scaduti nel frigo, essere sempre in ritardo, non mi offre la stessa dignità, a meno che ad essa non si attribuisca una differente sfumatura: quella di identità. Quella che potrebbe migliorare, ma che sceglie di essere cosí com'è, perchè ha imparato ad amare le sue imperfezioni. È quando prendi coscienza dei tuoi limiti, senza nutrire la presunzione di volerli sfidare a tutti i costi, che li vinci. E sarà allora che ti approprierai di una delle porzioni di dignità più importanti: non pretendere la perfezione.

Nutrire ambizioni e pianificare mete successive una volta raggiunte le precedenti mi dà dignità. Perchè desiderare qualcosa di meglio per se stessi non è sempre sintomo di una cronica insoddifazione, ma il desiderio di sentirsi infinito ed immaginarsi in un territorio senza confini pur quando ti troverai in una strada stretta apparentemente senza via d'uscita. Ti regala l'immaginazione, quella che ti farà percepire le infinite strade che potrai percorrere come se i tuoi polpastrelli fossero già in grado di palparne l'asfalto. Ed anche quando fallirai, saprai non sarà l'ultima volta, ma è per quella percentuale di riuscita che ancora resta, che varrà la pena provare ancora.

Ciascuno credo abbia una propria di lista. Di esigenze, aspettative, desideri, abitudini. Una propria lista di luoghi, circostanze e persone da non abbandonare. Una sorta di cartella che salveremo con il titolo di "cose importanti".
Una lista che per tutti sarà diversa. Eppure tutte potrebbero essere etichettate in un solo modo, riassunte in quell'unico termine che sembri quasi raggrupparle in un'unica categoria assoluta: dignità.

Quella cui non poter fare a meno perchè ti fa sentire quello che sei esattamente nel momento in cui lo desideri. Quella che non misura tempo e distanze, che non prevede altre priorità. Quella che ti completa ma allo stesso tempo ti fa sentire incompleto, come se non fosse mai abbastanza, come se ci fosse sempre altro da scoprire. Quella che ti elenca una lista di difetti che imparerai ad accettare nonostante tutto, perchè quell'imperfezione fa parte di te, non facendoti sentire diverso o sbagliato, ma solo te stesso, nel pieno della tua umanità. Quella che incontra tanti "ma", che sarà sempre in grado di scavalcare, perchè per ciascuno di questi ci sarà sempre una ragione per andare oltre.

Tutte le cose importanti sono cosí: offrono spicchi di dignità. E qualsiasi sia la forma che scegliamo per essa, sortirà il medesimo effetto: quello di sentirsi tutti interi, pieni, vivi.


domenica 27 settembre 2015

Il viaggio più bello che una persona possa fare

Non ricordo il preciso momento in cui una mansarda per due sia diventata la mia casa.
Ma so che il suo divenire ha seguito un ritmo lento, mentre compravo piante da porre sul davanzale della finestra con il proposito di maturare il pollice verde (che non è mai nato), mentre compravo ingredienti per cucinare un dolce (che ho preparato solo un paio di volte), e mentre appendevo poster alle pareti evitando di lasciarvi segni (che inevitabilmente si sono trasformati in buchi).

Prima di allora c'era un appartamento per sei, ed ancora prima uno per dodici. In nessuno dei due ho comprato piante, preparato dolci per tutti i coabitanti ed avevo solo qualche fotografia attaccata con il nastro adesivo ai lati dell'armadio, per non macchiare le pareti. In nessuna di queste, in verità, ho provato una sensazione simile a quella del sentirsi pienamente a casa. Quella in cui hai la libertà di camminare scalza, senza pensare a quanti microbi stiano facendo capriole nella moquette che riveste il pavimento. Quella in cui puoi sederti sul divano, senza immaginare di dover chiedere un tuo spazio ad altri dodici. Quella in cui se ti scappa la pipí, non sei costretta a fare la fila come se stessi in un bagno del Mc Donald's.

Eppure anche quelle, assumendo toni differenti, erano la mia casa, pronunciandone i suoni in modo poco deciso, come quando leggi una frase tra parentesi che credi sia poco importante.

Ma il tempo insegna che quello che credi abbia un valore approssimativo, diventa spesso quel tassello che congiunge tutti i punti, ciò che si traduce nella causa di tutti i passi successivi e che ne spiega le conseguenze.

Allora sono partita dall'inizio, da quando desideravo di girare il mondo e poi ad un certo punto mi sono fermata. E non perchè stessi rinnegando i miei voleri. Ho semplicemente avvertito quel bisogno naturale di ogni essere umano di sentirsi a casa anche lontano da casa. Quel bisogno di costruirne una, che fosse per dodici, per sei o solo per due, in cui poter veder crescere o seccare le proprie piante, in cui comprare ingredienti per preparare una torta o riporli nel frigorifero, in cui appendere alle pareti i propri ricordi, per guardarli ogni tanto cosí da ridurre la responsabilità della mia mente: quella di raggrupparli tutti in cesta che pur diventando talvolta troppo pesante, decidi di lasciarla lí, proprio sopra la tua testa.

Ma ho cercato di fare un gioco con la mia vita. Come quando entri in un supermercato, compri quello che desideri, approfittando a volte delle offerte, altre accontentandosi di quello che si trova, altre ancora trovando esattamente quello che stavi cercando, pagandone il conto alla cassa al termine del tuo giro. Allora per ogni anno che passa, prima di gettarlo alle spalle e ricominciarne un altro, leggo la lista delle cose che ci ho messo dentro, la analizzo, e poi la pago, tutta.

Ed è stato allora che ho scoperto di quanto più che vagabondare, io desideri che ogni anno sia sempre diverso da quello precedente e dal successivo. Quanto io desideri sperimentare quanti nuovi prodotti sia in grado di mettere nella cesta. Quanto sia grande il mio bisogno di crescere insieme ai miei sogni, e di andare avanti, di anno in anno, nella loro ricerca, nell'appuntarli come su di una lista della spesa, nel pagarli, e nel cercare poi qualcos'altro da aggiungervi.

Credo sia questo il senso del viaggio, quello intimo che silente si insidia nelle fessure di un'anima pronta a sperimentarne tutte le sfumature, e certa di non volersi mai fermare. Pur mantenendo una casa in affitto, continuando a far seccare le proprie piante e a nascondere i buchi alle pareti con altri poster.

Ed è in quest'intimo vagabondare per sentieri che non si conoscevano che si scopre che c'è qualcosa che non cambia, nonostante ci si imponga di farlo. È una sensazione costante rispetto l'anno precedente, che forse l'anno seguente sarà attutita, o forse no, ma sarà sempre lí a chiederne il conto.
E tu forse non riuscirai a pagarlo, te lo trascinerai dietro, prima di capire che quelle sono le cose importanti. Quelle che non potrai appendere alle pareti, nè riporre in una cesta, quelle che credevi di aver cancellato dalla lista. Quelle di cui forse un tempo avresti dovuto prendertene maggiore cura, ma avresti inevitabilmente modificato il corso degli eventi. Quelle che nonostante tutto però restano lí, perchè è in quella zona grigia cui sono state destinate, perchè un tempo ti hanno fatto sentire a casa ed una persona migliore, forse.

Non so quanto sia vero ciò che si dice in giro, che si lascia un pezzo di cuore ovunque tu vada e si costruisce in ciascuno una dimensione che poi imparerai a chiamare casa. Io ho lasciato porzioni di cuore importanti o anche pezzi più piccoli. Tutto il mio cuore o proprio niente. Ma mi piace pensare che sempre, ovunque e con chiunque, io abbia fatto il più bel viaggio che una persona possa fare: ho vissuto, in tutti i modi in cui una persona possa vivere.

domenica 20 settembre 2015

Gli effetti collaterali di una lezione di yoga di fine estate

Quando ero piccola, quasi tutte le domeniche, andavo a messa con la mia famiglia. Era un appuntamento a cui non potevo rinunciare, al punto che laddove fingessi una febbre improvvisa, mia madre sembrava irreprensibile. L'indomani mi sarei assentata a scuola, forse, ma l'omelia del sacerdote e lo sguardo austero di quelle pie donne sedute ai primi banchi indossando il vestito della domenica dai colori sobri, reso più vivace da un velo di rossetto che richiamava l'aria di festa, erano un qualcosa da cui non ci sarebbe stata alcuna via di fuga. 

Ora, con la facoltà di scegliere e la consapevolezza di mia madre di aver ottemperato a tutti i suoi doveri, ho provato a sperimentare dell'altro, che avesse le parvenze di un luogo in cui l'elevazione spirituale dovesse essere il monito per accedervi ed il sentirsi meglio una sorta di conseguenza. Guarda caso, la mia lezione di yoga si svolge proprio la domenica, e come tutte le messe celebrate per farvi partecipare anche i più piccoli, proprio alle dieci del mattino. 

All'inizio ci andavo con piacere, con la curiosità di chi vuole scoprire se è veramente cosí come tutti lo descrivono, per il desiderio di ritagliarsi uno spazio per rilassarsi, per scrollarsi di dosso il peso della settimana oramai trascorsa e preparsi per quella che verrà. E tuttora, nonostante vi aggiungerei l'aggettivo discreto, come per rendere più percettibile la mia sensazione al suono della sveglia, nonostante sia domenica. Proprio quando, non appena presi la prima comunione, mi dissero che avrei dovuto frequentare la chiesa ogni domenica, altrimenti avrei commesso un peccato. 

Ma cosí come pensai che Gesù Cristo avrebbe perdonato qualche mia mancanza comunque, anche per le mie lezioni di yoga sembra annunciarsi un esito non cosí differente. Allora, sdraiata sul materassino o con le gambe incrociate, ho cominciato a pensare a tutto quello che avrei potuto fare una volta fuori da quella stanza dal soffitto bianco e dalle pareti specchiate. Mi odieranno gli amanti di un'attività del genere in cui la ricerca del proprio io interiore e la sensazione di essere a contatto con la propria anima dovrebbero esserne il risultato. 

Forse perchè oggi il cielo era stranamente azzurro e mi sono ricordata che fosse l'ultimo giorno d'estate, quelli in cui, se si può, ci si gode gli ultimi attimi di un'estate vissuta in modo inusuale, in cui, diversamente da come sia iniziata, l'aria é calda ed i raggi di sole ti accarezzano la pelle facendoti sentire quasi a casa. 

Cosí ho pranzato in un ristorante giapponese lontano dal traffico della metropoli, circondato da un mercatino di roba usata da offrire in beneficenza, con il suono di una chitarra in sottofondo. 

Questo è stato il mio sentirmi bene in una domenica di fine estate: dopo la mia lezione di yoga, con il ricordo di quanto le mie domeniche per più di vent'anni fossero state diverse, ma non per questo da dimenticare.

Ed è cosí che la mia estate volge al termine. Pensando che domani giungerà l'autunno, pur mantenendo il sole dentro, quello che serve per ogni nuovo inizio che è dietro la porta ad aspettarmi, che sarà già qui, domani.

giovedì 17 settembre 2015

Homesick: la nostalgia non é una malattia

Nel posare la tazza di tea fumante sul tavolo, ho guardato il grigiore delle nuvole fuori dalla finestra che facevano da cornice ad una sequenza di tetti spioventi color rame, e ho realizzato quanto la stagione autunnale fosse oramai alle porte. Diciamo che in Inghilterra il suo spirito aleggia nell'aria anche prima, facendo in modo che tu non subisca alcun cambiamento climatico radicale e tenendo sempre la maglieria pesante su di una mensola dell'armadio anche in pieno agosto. Ma forse con l'ufficializzazione dell'autunno data dal calendario, mi sentirò in dovere di indossare il cappotto nuovo e di guardare alle decorazioni natalizie non più come fosse una data troppo lontana.

L'aria più fredda, i colori spenti del paesaggio circostante, le foglie ingiallite che tra poco cominceranno a staccarsi dai loro rami, lasciano pensare ad una nostalgia che non può risparmiare nessuno. E ci pensavo proprio quando in un vagone della metropolitana ho avvertito d'un tratto i profumi di casa, prima che una donna mi si sedesse accanto sgranocchiando patatine al formaggio, la cui puzza non avrebbe risparmiato nessuna narice, nemmeno se avessi avuto il raffreddore.

Come quando torni a casa e alla domanda "come stai?" vorresti trovare un termine adatto. Uno soltanto che eviti la perifrasi sto bene ma a volte ci si sente molto soli. Non soltanto in autunno. Non solo quando cadono le foglie. E neppure solo quando hai una tazza di tea tra le mani che ti riscaldi.
É come un singhiozzo che dura 365 giorni l'anno, anche quando pensavi di aver deglutito abbastanza per lasciartelo passare. È una nostalgia che non si attutisce mai, ma che può essere domata concependola non come fosse una malattia da cui non si guarisce.

Ogni volta basta pensare al tragitto fino ad ora percorso, a quei mattoncini che abbiamo con cura posto gli uni sugli altri, a tutti quei granelli di sabbia che abbiamo fatto scivolare tra le dita, a quella linea all'orizzonte che ogni volta appare sempre più nitida al punto da immaginare di oltrepassarla. Occorre pensare al perchè si è iniziato, ed allora anche la nostalgia diventerà meno amara.

Siamo noi a decidere anche questo: se morire di malinconia, o vivere di aspettative.

Io ho scelto di sentire i profumi di casa prima di realizzare che l'unico profumo esistente fosse quello di patatine al formaggio sgranocchiate dal vicino. Ed ho scelto di farmi entrare nelle narici anche quello, in un vagone che segna un viaggio verso una nuova destinazione. Ho scelto di bere una tazza di tea per riscaldarmi, di essere pronta alla caduta delle foglie prima del previsto e di guardare gli schizzi di pioggia che formano pozzanghere sull'asfalto perchè non posso guardare il mare.

Ma chi conosce la direzione da seguire, non si ammala di nostalgia, piuttosto impara a domarla.