mercoledì 30 dicembre 2015

Quando tutto diventa un alibi

L'altro giorno la pigrizia ha miracolosamente abbandonato il mio corpo, cosí ho pensato non avessi più alcun alibi per non andare in palestra. E dato che di alibi me ne procuro già abbastanza, ho ceduto alla tentazione di non farlo anche stavolta, accarezzata da un lieve venticello e da raggi di sole stranamente tiepidi per una giornata di fine dicembre.

E proprio mentre ero lí, a contare i minuti che mi separavano tra il tapirulan ed il poggiare i piedi su di una superficie statica che non imponesse alcun esercizio fisico, il mio sguardo si è poggiato su di un uomo, nemmeno troppo anziano, che indossava una maglia giallina a mezze maniche, un pantalone chiaro e delle scarpe marroni. 

La mia attenzione è calata su di lui, come luci su di un sipario, non perchè indossasse un abbigliamento poco sportivo e forse non consono ad un ambiente come quello. Ma l'uomo andava in giro per la sala con un bastone con cui si aiutava per passare da un attrezzo all'altro, prima di lasciarlo quando trovava qualcos'altro cui appoggiarsi. 

Vederlo girovagare per la sala tra busti che sembravano scolpiti nel marmo lo rendeva quasi diverso dagli altri. Ma quando saliva su di un attrezzo qualsiasi, ponendo il bastone vicino la parete alla sua sinistra, diventava come gli altri: uno che, in una giornata di fine dicembre, dai raggi di sole stranamente tiepidi, aveva deciso di allenarsi. Con quegli indumenti lí. Nonostante fosse claudicante. Nonostante non riuscisse a camminare se non per aiuto di un bastone.

Ed allora ho speso l'intera mattinata in palestra ad osservarlo, quasi come se volessi emularlo. 
Perchè in fondo è vero che siamo i primi boicottatori di noi stessi.
Lo facciamo con i nostri desideri, quelli cui ad un certo punto attribuiremo l'aggettivo dell'impossibile, solo per non ammettere di non averci creduto abbastanza.
Lo facciamo con le circostanze che avremmo voluto vivere, se solo non avessimo avuto paura di saltarci dentro anche quando tutto ci diceva di non farlo.
Lo facciamo con le persone, quando ci convinciamo che non hanno fatto abbastanza, senza contare ciò che noi, invece, avremmo potuto fare.
E lo facciamo con la nostra felicità, quando crediamo di non poterla meritare.

Ho cercato, per giorni, qualcosa da aggiungere alla lista dei buoni propositi di quest'anno.
Come un rituale che osservi nonostante finisca tra quelle abitudini che forse non inizierai mai.

Ma poi ho capito che quest'anno non ci sarebbe stata alcuna lista nè un alibi che giustificasse le mancate scelte.

Quell'uomo è diventato il simbolo di un anno in cui ho spazzato via gli alibi sull'uscio della porta, e mi sono arrampicata, anche quando credevo potessi cadere. Ma nonostante tutto, non ho smesso di farlo. E quando non potevo, mi costruivo un bastone e proseguivo, insieme a lui.

C'è l'abitudine di augurarsi che l'anno che verrà sia sempre migliore del precedente.
Io invece lo desidero esattamente cosí come è stato.
E di scoprire, solo alla fine, cosa hai imparato e chi sei diventata.
Come guardare un film muto in una sala per pochi.
Attraverso chi, intanto, ti sta insegnando che a poco conta augurarsi il meglio, se prima non sei tu ad andartelo a prendere. A qualsiasi condizione, e con ogni mezzo.

Quell'uomo me lo stava insegnando, in una giornata di fine dicembre qualunque.
Che siamo tutti scalatori, amatoriali o professionisti, con una meta da raggiungere.
Ed i mezzi, spesso, riducono i limiti. Le ragioni li vanificano.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

lunedì 28 dicembre 2015

Gocce di empatia

Empatia.
Nel linguaggio psicologico, è una forma di immedesimazione negli stati psicologici dell'altro a cui sarebbe subordinata la spiegazione, o "comprensione", del suo comportamento. In sostanza, la capacità di porsi nella situazione di un'altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell'altro.

Io invece ho sempre pensato fosse un altro modo per comunicare.
Quello che si sceglie in modo naturale quando non c'è altra alternativa alla distanza.
O quello che si scopre imparando ad osservare qualcuno che ci è sempre accanto.
Quel linguaggio che lega fili di silenzio in un mucchio e che ad un certo punto si lascia cadere, cosí che ogni filo scivoli via per raggiungere l'altro, senza alcuna possibilità di essere riavvolto.

Ho sempre creduto vi fosse un modo di sentire differente.
Quello che di fatto appartiene già a chi sente troppo tutto.
A chi è in grado di cambiare la vita di qualcuno, ma sempre con la massima cautela.
A chi entra nella tua vita e prima di andar via ti chiede perdono.
A chi rovescia tutto e prima di gettarne i cocci cerca di rimetterli insieme.
A chi prima di attaccare una fotografia alla parete, pensa alla parete appiccicosa che non andrà più via se un giorno deciderai di rimuoverla.

Ho sempre creduto che una cosa come questa appartenesse a queste persone qui.
Quelli che si prendono cura di te al punto da pensare a quello che potrai essere un domani e mitigare le loro scelte per non compromettere quelle che forse un giorno potranno essere le tue.
È una sorta di missione. Entrano dentro di te, senza sconvolgerti la vita.

Credevo che potesse essere una qualità da apprendere o una di quelle con cui ci devi nascere.

Invece ho capito che si trova.
Per caso, in un giorno qualsiasi, o negli occhi di chi al principio ti apparirà come uno qualunque.
Si addiziona, come un'operazione algebrica.
Si moltiplica, come una radice quadrata.
E poi si mescola, come una poziona magica.

Prendi uno, per esempio, che creda di conoscerne già il procedimento, ed un altro che non si sia mai interrogato sulla possibilità di farlo.
Li metti insieme ed entrambe capiscono che ne vale la pena.
Chi credeva di conoscere tutto ciò che bastava, imparerà a conoscere ciò che credeva non potesse meritare.
Chi credeva di non saperlo fare, apprenderà ciò che credeva non potesse esistere.

Uno dei due pronuncerà quello che avrebbe detto l'altro appena un attimo dopo, se solo i suoi attimi durassero meno.
Entrambe colmeranno le distanze con gesti di pochi secondi, che appariranno come attimi di gioia infiniti.
Riusciranno a mettere in ordine le cose, lí dove era giusto che stessero.
Saranno gli unici in grado di comprendersi anche in silenzio.
Perchè avranno scoperto come sentirsi, in tutti i modi in cui sia possibile farlo.

E niente, questa è l'empatia.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.




domenica 29 novembre 2015

Una casa normale

Adesso vivo in una casa normale. A me piace chiamarla cosí.
Quella dove esiste un confine reale tra la tua camera da letto, il soggiorno e la cucina.
Quella in cui hai piazzato un divano, finalmente comodo, su cui spendere il resto delle tue giornate dopo il lavoro, o che potrà diventare una plausibile sistemazione di chi, si spera, ti verrà presto a trovare.
Quella in cui c'è spazio in sovrabbondanza, per comprare finalmente un mobile in cui riporre i tuoi libri su di ogni scaffale ben in vista. Dove appendere alle pareti un quadro che ti piace tanto e delle fotografie, quelle che ti hanno seguito ovunque tu sia andata, come a voler svelare parte della cesta dei tuoi ricordi, ma mai abbastanza.

Quella in cui per i tuoi vestiti non ci sarà mai abbastanza spazio, ma almeno riuscirai ad identificarli nel tuo armardio nuovo più capiente, ancora con gli occhi gonfi di buon mattino, senza convincerti di averli maldestramente persi. E poi dove?

Quella che per tre giorni di fila hai rassettato con cura, rimuovendo ogni briciola dal parquet, ordinando tutto a tua immagine e somiglianza, perchè si sentisse nell'aria il tuo profumo, perchè raccontasse qualcosa di te, perchè sembrasse perfetta nonostante le tue imprecisioni.

Come un traguardo che pensavi non potessi mai raggiungere, eppure è arrivato prima del previsto. Proprio mentre ricordavi il tuo soggiorno in una casa per dodici, con una pila di piatti di sporchi nel lavabo che avrebbero atteso il ritiro dei soldati in Afghanistan per essere puliti e la carta igienica nascosta come fosse un prezioso arsenale. Mentre ricordavi, accennando un sorriso, il tuo passaggio in una casa con la metà dei coabitanti, ma pur sempre un campo di battaglia. O mentre ricordavi, appena un anno fa, quando mettesti piede in una casa, piccola ma accogliente, che fosse solo per due. Dove il confine tra la camera da letto, il soggiorno e la cucina era inesistente. Dove ti sei convinta che il divano fosse comodo, nonostante non lo fosse. Dove riponevi i tuoi libri in cima all'armadio, che risploveravi di tanto in tanto. Dove non c'era spazio a sufficienza per appendere ai muri tutti i tuoi ricordi, qualcuno lo lasciavi nel cassetto. Dove ogni giorno perdevi una camicia nell'armadio, ma il giorno seguente ne recuperavi un'altra.

Non ho cambiato zona, e nemmeno l'edificio. Sono scesa semplicemente di qualche piano. Ed è per questo, che proprio l'altra sera, mentre ero in giardino ho alzato gli occhi verso quella finestra chiusa al secondo piano, con le luci oramai spente e senza più fiori sul davanzale.
Ho immaginato la mia figura sporta alla finestra e quanti pensieri in poco più di un anno abbia lasciato su quel davanzale.
Ma è successo solo quella sera. Ho deciso di lasciarli lí, almeno quei ricordi, perchè qualcuno meritava di essere spento come le luci di quella casa.
Ho capito che non avevo bisogno di portarli con me. Avrei voluto, forse, ma probabilmente sono stati loro a scegliere di non seguirmi, per rimanere in una stanza buia, dalle pareti bianche, lasciando che sia il silenzio a colmarli.

Perchè tutto cambia. Le circostanze, le emozioni, le persone, ed anche i ricordi. E cambiano perchè a mutare è il modo con cui a loro ci rapporteremo.

Ma in ognuna di queste fasi ricordo quella sensazione. Palpabile, come il terreno bagnato dopo una giornata di pioggia, e percepibile, come l'aria fresca che al mattino ti entra nelle narici. Mi bastava, ed è sempre stato cosí.

Non desideravo una casa diversa, perchè quello che adesso chiamo "passaggio alla normalità", sapevo di dovermelo guadagnare e che, un giorno, sarebbe arrivato, tra lo stupore del sentirmi felice perchè ho un mio spazio per scrivere, uno per leggere, uno per dormire, un altro per cenare, ed un altro in cui prendere aria anche se piove.

Non sapevo che volto avesse questa felicità, nè che nome attribuirgli. Ma adesso la rivedo in tutti i luoghi precedenti cui ho sempre attribuito nomignoli simili ma mai identici, come fossero un ponte per arrivare a quella che è, e che ancora forse dovrà essere.

Perchè ci vuole cura per far crescere un cuore.
Lo si innaffia a giorni alterni, esponendolo al sole.
Non lo si lascia morire.
Quando muore, lo si butta via e se ne fa crescere un altro.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.


sabato 21 novembre 2015

Occhi sani non conoscono nemici

Ho immaginato di svegliarmi un giorno ed un tratto percepire sulla mia pelle in rancore riflesso negli occhi di perfetti sconosciuti. O di essere io a possedere quegli occhi inquisitori.  

L'ho immaginato mentre lei mi diceva: "Dopo quello che é successo a Parigi, ce l'hanno tutti con noi", raccontando di essere stata verbalmente aggredita da un uomo mentre si trovava in ospedale con sua madre per una visita medica.
Parlando in prima persona, ma al plurale, presupponendo che dall'altra parte ci sia un "voi", ed in mezzo un deserto a separarci. Lei era il noi, io ero il voi. Intercambiabili a seconda del punto di vista dell'interlocutore.

Lei è una mia collega, cui ho scelto di dare un nome di fantasia. Allora facciamo pure che ve la presenti con un nome "occidentale", tipo Monica.


La famiglia di Monica è originaria del Bangladesh, ma lei è nata in un quartiere a Nord di Londra. Non so di che colore abbia i capelli, nè se li porti lunghi o corti, perchè indossa sempre un burka nero in tinta con i colori sobri degli abiti che indossa. Le chiedo spesso di insegnarmi come mettere l'eye liner con la sua stessa precisione, senza rischiare di sembrare un panda ogni volta. Ma probabilmente, nemmeno se riuscissi ad apprenderlo, sortirebbe su di me lo stesso effetto elegante che ha sopra i suoi occhi neri e dal taglio lungo.

In pausa pranzo evitiamo i ristoranti cinesi, perchè dice che non si fida. Potrebbero facilmente spacciare il pollo per halal anche quando non lo è, dice lei.

Quando andiamo al pub il fine settimana, è l'unica ad ordinare una coca cola. Tempo fa, quando ho fatto il vaccino contro l'influenza, mi ha stretto la mano mentre giravo i polsini della camicia e l'infermiera si preparava a farmi entrare l'ago nel braccio. Perchè a ventisei anni, ho ancora paura dell'ago. E lei, nonostante avesse di fronte una donna poco più grande di lei, mi ha detto sorridendo: "I'm proud of you", una volta terminato, assicurandosi ricevessi una caramella alla frutta subito dopo, come fosse un premio, come si fa per un bambino terrorizzato. 

Monica non ha mai conosciuto la guerra.
Non ha mai visto il cielo del Medio Oriente.
Non ha mai annusato l'odore della polvere da sparo.
Non sa maneggiare un kalashnikov.
Non ha un fidanzato di vent'anni più grande di lei.
Non pensa di diventare la schiava di nessun uomo. Probabilmente una madre, ma è ancora troppo presto.
Prega Allah, perchè questo è il nome del suo Dio. Ma organizza un minuto di silenzio per la commemorazione dei caduti inglesi nella guerra mondiale, cosí come per le vittime degli attacchi a Parigi.
Monica non ha la minima conoscenza sull'educazione impartita ai bambini nei villaggi sotto il controllo dell'Isis. Gliel'ho raccontato io, in modo approssimativo, dopo aver visto un documentario.
Invece lei mi ha detto che il principe dell'Arabia Saudita ha più di centoventi figli e trenta mogli, ma che nonostante il loro sangue blu, non vorrebbe mai essere tra queste, e nemmeno essere associata ad una cultura cosí estremista.

Monica è musulmana. Fa parte di quel "loro" che attribuiamo ad un popolo intero, suddividendoli per sottocategorie cui riserveremo lo stesso sguardo. Quello che attribuisce loro colpe di altri. Che li guarda con lo stesso spavento di chi crede che potrebbero farsi saltare in aria da un momento all'altro, e noi con loro. Quello sguardo che li etichetta come impositori di una cultura ed una religione pronte a smembrare le nostre.
Perchè in fondo, chi è che il giorno dopo gli attacchi terroristici di Parigi non si sia imbattuto in uno di loro e non li abbia guardati con rabbia, o semplicemente con spavento. 

Ed anche Monica ne era a conoscenza, non appena ha aperto la porta dell'ufficio, che quello non sarebbe stato un ordinario lunedí come gli altri. E l'ho capito quando ogni pretesto si è per lei trasformato in un motivo giusto per parlare della sua religione, della sua cultura, della sua gente, per spiegare il suo punto di vista, cosa che prima non aveva mai fatto. 

E lo sapeva anche lui, cui darò un altro nome di fantasia, tipo Marco. Ma che quel lunedí ha scelto di reagire in modo diverso. 
"Ho visto che hai scritto qualcosa su Parigi", mi ha detto.
Ed io ho soltanto annuito, perchè per me si trattava di un lunedí diverso dagli altri, ma pur sempre un lunedí in cui fatico per le prime ore del mattino a mettere insieme frasi di senso compiuto.
Ed allora pensando che avessi scritto qualcosa di male che non sarebbe stato in grado di tradurre, mi ha detto: "Mi dispiace, sono solo degli assassini."
Ed io, ascoltando quella frase, ho sentito il bisogno di svegliarmi sul serio tutto d'un tratto. 
Perchè l'aria era pesante e ho avvertito quanto sentisse il peso della giustificazione per qualcosa di cui lui non era colpevole. Quanto mettesse sulle mie spalle il peso di una superiorità che non desideravo possedere. 
Cosí ho rotto il silenzio aprendo la busta dei biscotti che abbiamo messo al centro del tavolo per mangiarne qualcuno insieme. È stato il primo gesto istintivo, per smorzare quell'atmosfera che più che paura, sapeva di qualcosa di irreale che intanto si consumava di fronte i nostri sguardi impotenti.

Ma è ciò che è accaduto in un lunedí che poteva essere come tutti gli altri, ma che purtoppo non lo è stato. 
Perchè io ho sempre detto di essere cristiana, loro musulmani. Ma se l'avessimo saputo, avremmo forse evitato di puntualizzarlo troppe volte, per non scambiarci pesi gli uni con gli altri, che nemmeno ci spettano. Per non aspettare risposte o rassicurazioni che non siamo tenuti ad offrire.

Ma la domanda che mi sorge spontanea non è se questa sia una guerra giusta o sbagliata. La sola idea che si faccia chiamare guerra, dovrebbe d'istinto metterci tutti uniti e puntargli il dito contro. 

Vorrei piuttosto sapere cosa state insegnando ai vostri figli o nipoti, per comprendere cosa possa insegnare ai miei tra qualche anno. 

Come faccio ad insegnare a mio figlio che quelli con la barba lunga e la carnagione scura, quelli che riconoscono in Allah il proprio Dio e ne Il Corano il loro testo sacro, sono diversi, per questo potenziali nemici?
Come faccio ad insegnare a mio figlio che gli esseri umani non sono tutti uguali, e che esistono culture superiori alle altre?
Come faccio ad insegnare a mio figlio che aggredire fisicamente o verbalmente qualcuno non è una cosa giusta, ma se il soggetto in questione è il nemico cui tutti sembrano aver dato quel volto, potrebbe essere giustificato?

Non so che state dicendo ai vostri. Io sono sicura che al mio lascerò la libertà di scegliere cosa sapere solo dopo aver sperimentato, lasciandolo solo in quest'esplorazione.

Perchè so già, con molti anni in anticipo, che alla fine lo capirà anche lui o lei. 

Che Monica e Marco non rappresentano il nemico. Che se pensiamo possano esserlo, saremo destinati a possedere occhi inquisitori. Quelli che osservano il diverso con disprezzo, rinunciando alla curiosità dello scoprire.
Spero allora che, come me, sceglierà di avere occhi sani. Che non significa svuotarsi completamente dalla paura, ma trattare tutti con grazia, non avere inutili pesi sul cuore, guardare tutti come esseri umani, per riuscire a domarla.

Ve l'ho voluto raccontare, per lasciare a voi la possibilità di scegliere da che parte stare.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

domenica 15 novembre 2015

"Nostre amour de la vie n'est qu'une vieelle liaison..."

Da poco più di quarantotto ore tutto il mondo si stringe al dolore del popolo francese.
Lo si fa un po' tutti, mentre c'è chi chiama bastardi un intero popolo: uomini barbuti, donne con il burka, bambini, tutti. Come se fosse un dato precostituito che tutti siano armati di kalashnikov o pronti a farsi saltare in aria.

Mentre c'è chi richiama chi vuole pregare, perchè piuttosto sarebbe più importante pensare.
Mentre c'è chi si azzuffa su chi abbia delle reali responsabilità.
Mentre c'è chi, alla cieca, getta nella cesta dei colpevoli tutti: dall'Oriente all'Occidente.
Mentre c'è chi è pronto a stanare l'ultima gaffe di un qualche politico di turno, per poi non risparmiarci nemmeno il commento.
Mentre c'è chi asserisce che ogni giorno si muore, non solo a Parigi.

Ed è vero che non esistono morti di serie A, B o C. Ma il pensiero che quasi 130 morti in casa nostra scuotano più di mille in altre parti del mondo, sfugge alle regole di logica anche dell'animo più sensibile, purtroppo.

Ma oggi è a lei cui ho rivolto il mio pensiero, a Valeria. Alla studentessa della Sorbona trovata morta nell'attacco al Bataclan. E non perchè la sua morte valga più delle altre centoventotto, nè di quelli che ogni giorno perdano la vita in quei Paesi che non abbiamo mai visto con i nostri occhi, ma in cui sappiamo solo che tutto ciò avviene a scadenza quotidiana.

Perchè lei incarna quello che siamo anche noi, forse, quando prepariamo una valigia per dirigerci all'estero. Quando la carichiamo di tutte le aspettative che la vita può riservarci solo se ad essa ci apriamo abbastanza. Quando decidiamo di andare in un altro Paese per studio, lavoro, o solo alla ricerca di qualcosa che sia lí ad attenderci per cambiare il corso delle nostre vite. Quando crediamo in un' Europa unita che sia pronta ad accoglierci e a cui daremo il meglio di noi. Quando crediamo in un mondo che è cosí grande da poterci districare liberamente. Quando crediamo che non esistano confini segnati da una lingua diversa, da una cultura distante dalla nostra, e forse anche da una religione, perchè, alla fine, apprenderemo tutto cosí da poterlo rendere parte della nostra quotidianeità. E quello che non possiamo imparare, cercheremo di comprenderlo, ed accettarlo, comunque.

Perchè oggi i genitori di Valeria, sono anche un po' i nostri. Quelli che supportano un figlio in ogni sua scelta. Quelli che gioiscono al solo pensiero di vederlo tornare di tanto in tanto, anche solo per vedere il letto disfatto. Quelli che si stringono, con dignità, in un dolore che non è paragonabile a nulla: scoprire che il proprio figlio non riuscirà mai più a raggiungere la casa in cui è cresciuto.

Potevamo essere Valeria, o qualcun altro. Potevano oggi essere i nostri genitori a piangere.

E sí, la paura. Quella paura che possa riaccadere. Quella che non conosce nessuna dimensione, o spazio temporale, o area geografica. Quella che non risparmia nessuno e che ci rende tutti schiavi.

Ma come diceva Marcel Proust: "Nostre amour de la vie n'est qu'une vieelle liaison, dont nous ne savons pas nous débarrasser - il nostro amore per la vita non è che un vecchio legame di cui non ci sappiamo sbarazzare".

Lasciamo che lo sia. Lasciamo che sia l'antidoto più prezioso per vincere la paura. Lasciamo che lo sia, nonostante il dolore. Questo non dovrà togliercelo nessuno. Come se si immaginasse di passeggiare per le strade sulle note della vie en rose, in un mondo simile a quello di Amelie, come se si partecipasse a jeaux d'enfants.

Il mondo è diventato un posto invivibile, ma se ci si arrende a questo postulato, significherà che avremo già perso.



Quando torni? il mio romanzo che affronta l'altra faccia della migrazione in Regno Unito, dando voce alle storie degli italiani che lasciano il proprio Paese. Disponibile in ebook su Amazon, Itunes, Scribd, Kobe, Barnes&Noble, Smashwords e Lulu.com e su quest'ultimo anche in versione cartacea.




domenica 25 ottobre 2015

Le conseguenze dell'autunno

Sarà che mi lascio cullare dalla stagione autunnale.
Dall'aria fresca, dalle foglie ingiallite che coprono l'asfalto, dalla sequenza di alberi quasi spogli che il mio sguardo segue come a volerne disegnare le curve.

Sarà che in autunno sento di mancarmi. Un po' e solo qualche volta.
Quando vorrei farmi entrare nei polmoni tutta l'aria respirabile.
Quando vorrei colorare le foglie ed immaginare di accogliere una nuova primavera in anticipo.
Quando vorrei prepararmi una tazza di cioccolata calda, solo per annusarne il profumo, perchè non ho bisogno che il suo tepore mi riscaldi le mani.

Perchè mancarsi significa perdere quella parte di sè che respirerebbe a pieni polmoni, senza mai fermarsi anche quando sono pieni, senza mai avvertirne il freddo.
Significa non riuscire a vedere i colori della natura, se non immaginando di ridipingerla su tela.
Significa cercare qualcosa, non perchè ci faccia bene, ma perchè ci siamo convinti che faccia parte della scala dei nostri bisogni, che ad ogni scadenza imposta arrivano puntuali a bussarci alla porta.
Significa che non ci manca niente. Niente che faccia pensare ad un vuoto da colmare. 

Solo quella parte, quella che si imponeva di non lasciare mai i sogni in un cassetto, che sfidava le cose impossibili perchè sapeva che un giorno sarebbe stata in grado di afferrarle, quella che alzerebbe una cornetta per togliersi dei pesi dal cuore, quella che voleva essere grande non per gli altri, nè per se stessa, ma per ciò che sarebbe stata in grado di fare. Quella parte, che a volte sembra nascondersi sotto i binari di un treno, dietro uno schermo di un apparecchio elettronico qualunque, dietro silenzi che sono come singhiozzi che ci salgono in gola ad intermittenza. 

Quella parte manca, un po' e solo qualche volta.

E non so se sia l'autunno o semplicemente la consapevolezza che occorre mancarsi.
Quando cambia la scala delle nostre priorità, quando si comprende che procedere spesso significa lasciare pezzi di te sparsi ovunque, raccoglierli senza mai dimenticarli, pur prospettando per essi una posizione differente. 

Ed è forse questa la sfida più importante: imparare a mancarsi, senza perdersi mai del tutto.
Mancarsi, senza mai lasciare vuoti.
Mancarsi, un po' e solo qualche volta.

domenica 18 ottobre 2015

Scrivete una lista di cose importanti e provate a darle un nome: sarà dignità

Ho pensato alle cose importanti. Quelle cui non potrei mai a fare meno. Di quelle che porteresti sempre con te, perchè ti completano e ti fanno essere quella che sei.
Nonostante ti portino via del tempo. Nonostante siano imperfette. Nonostante sai di non poterle mai concludere del tutto, perchè forse ci sarà sempre qualcosa da aggiungervi.

Ho pensato che scrivere sia una cosa importante, nonostante mi rubi del tempo. Ma credo che sia il tempo più prezioso che io abbia mai impiegato per me stessa.

Credo che conservare yogurt scaduti nel frigo o cianfrusaglie in ogni borsa o essere sempre in ritardo, siano cose imperfette. Ma allo stesso stesso non potrei mai rinunciarvi. Perchè se un giorno mi svegliassi e decidessi di fare spazio nel frigo, di gettare tutta la robaccia che conservo in ogni borsa, o di trovarmi in un posto con dieci minuti d'anticipo, probabilmente non mi riconoscerei. Pertanto, anche queste sono cose importanti. Quelle che mi concedono il lusso di elencare una lista di difetti che ho imparato a farmi andare bene lo stesso.
Perchè la coscienza di essere imperfetta mi fa pensare che anche gli altri lo siano, cosí come certe circostanze, imparando ad accettarle cosí come sono, come ho fatto per me stessa.

Nutrire ambizioni è un'altra cosa importante, ma una di quelle che sai bene non giungeranno mai ad un approdo definitivo. Perchè cresceranno sempre dentro di te, come rami di una quercia pronti a fortificarsi con l'andar del tempo. Man mano che vedrai un ramoscello crescere, ne vorrai sempre un altro, ed ancora un altro, e sempre più grande.

Ho pensato che ognuno abbia la propria lista e che ciascuno sia in grado di riassumerla in una sola parola, quella che sussumerà tutte le altre.

La mia parola importante è dignità.

Scrivere mi dà dignità, perchè se non lo facessi mi sentirei incompleta. È una di quelle cose importanti a cui non potrei mai dire basta. Perchè scrivere mi fa essere quella che sono, nel momento in cui desidero esserlo. Conquisto un pizzico di dignità ogni volta che le mie dita impugnano una penna, che l'inchiostro macchia un pezzo di carta qualunque, che le mie dita scivolano sulla tastiera. Ogni volta che qualche mio pensiero prenda forma in una serie concatenata di parole, ogni volta che mi accingo in una qualche impresa più elaborata. Ogni volta io sono lí. Ad aspettare le parole, a far scorrere i pensieri, a metterli insieme in modo naturale, a creare quello che nel mondo non riesco a trovare o forse a vedere, ma che lí invece ho il potere di immaginare. Sono lí, con me stessa, perchè quella è una cosa importante e merita che io ci sia dentro, completamente.

Trascinare cianfrusaglie nella borsa, conservare yogurt scaduti nel frigo, essere sempre in ritardo, non mi offre la stessa dignità, a meno che ad essa non si attribuisca una differente sfumatura: quella di identità. Quella che potrebbe migliorare, ma che sceglie di essere cosí com'è, perchè ha imparato ad amare le sue imperfezioni. È quando prendi coscienza dei tuoi limiti, senza nutrire la presunzione di volerli sfidare a tutti i costi, che li vinci. E sarà allora che ti approprierai di una delle porzioni di dignità più importanti: non pretendere la perfezione.

Nutrire ambizioni e pianificare mete successive una volta raggiunte le precedenti mi dà dignità. Perchè desiderare qualcosa di meglio per se stessi non è sempre sintomo di una cronica insoddifazione, ma il desiderio di sentirsi infinito ed immaginarsi in un territorio senza confini pur quando ti troverai in una strada stretta apparentemente senza via d'uscita. Ti regala l'immaginazione, quella che ti farà percepire le infinite strade che potrai percorrere come se i tuoi polpastrelli fossero già in grado di palparne l'asfalto. Ed anche quando fallirai, saprai non sarà l'ultima volta, ma è per quella percentuale di riuscita che ancora resta, che varrà la pena provare ancora.

Ciascuno credo abbia una propria di lista. Di esigenze, aspettative, desideri, abitudini. Una propria lista di luoghi, circostanze e persone da non abbandonare. Una sorta di cartella che salveremo con il titolo di "cose importanti".
Una lista che per tutti sarà diversa. Eppure tutte potrebbero essere etichettate in un solo modo, riassunte in quell'unico termine che sembri quasi raggrupparle in un'unica categoria assoluta: dignità.

Quella cui non poter fare a meno perchè ti fa sentire quello che sei esattamente nel momento in cui lo desideri. Quella che non misura tempo e distanze, che non prevede altre priorità. Quella che ti completa ma allo stesso tempo ti fa sentire incompleto, come se non fosse mai abbastanza, come se ci fosse sempre altro da scoprire. Quella che ti elenca una lista di difetti che imparerai ad accettare nonostante tutto, perchè quell'imperfezione fa parte di te, non facendoti sentire diverso o sbagliato, ma solo te stesso, nel pieno della tua umanità. Quella che incontra tanti "ma", che sarà sempre in grado di scavalcare, perchè per ciascuno di questi ci sarà sempre una ragione per andare oltre.

Tutte le cose importanti sono cosí: offrono spicchi di dignità. E qualsiasi sia la forma che scegliamo per essa, sortirà il medesimo effetto: quello di sentirsi tutti interi, pieni, vivi.