sabato 6 febbraio 2016

Siate donne, siate leonesse


Fino a qualche tempo fa mi comportavo come il mio gatto che va a nascondersi per espellere i propri bisogni e poi li sotterra tra i sassolini della lettiera, in attesa che qualcuno vada a scovarli per rimuoverli.

Perché esiste questa categoria di persone. Quelle che fanno come i gatti.
Ed io ne facevo inconsapevolmente parte, fin quando un giorno ho capito che non volevo essere quel tipo di donna.

Quella che si nasconde per timore di palesare i propri bisogni.
Quella che li esprime sotto voce, per timore che facciano troppo rumore.
Quella che li sotterra, non perché li reputi poco importanti, ma in attesa che qualcun altro li scopra e faccia qualcosa per portarli in superficie.

Cosí un giorno ho scoperto che volevo essere quella donna che mette i propri bisogni al primo posto. Che li urla, fino a sgolarsi. Che li sbatte in faccia a chiunque, affinché nessuno possa giustificarsi dicendo di non esserne a conoscenza.

Poi, col tempo, ho scoperto che questo sodalizio che avevo stretto con il mondo esterno non era destinato a durare. 
Perché chi mette i propri bisogni al primo posto diventa egoista nei confronti dell’altro.
Chi li urla rischia di bombardare le orecchie con il suono di quello che diverrà man mano soltanto un’eco.
Chi li manifesta come se non vi fosse altra che quella priorità, assoluta ed immediata, rischia di diventare schiavo delle persone. Della richiesta a loro rivolta di accondiscendenza, in ogni caso.

Cosí ho cercato una via di mezzo, catalogandomi tra le persone-gatto e tra quelle che credono di avere il mondo ai loro piedi. 
Mi sono riservata uno spazio in questa giungla, e ho capito che potevo essere una leonessa.

Le donne-leonesse siglano un patto di forza, tra loro stesse e tra loro ed il mondo.
Un compromesso tra i loro punti deboli e quelli saldi, in cui non vincono sempre i secondi a discapito dei primi.
Perché palesano i propri bisogni mettendoli in cima alla lista, consapevoli però del fatto che lì non potranno restare per sempre e ad ogni condizione. Perché forse questi stessi cambieranno cedendo il passo ad altri. 
Li esprimono con tono maturo di chi sa ciò che vuole.
Non li sotterrano mai, né lasciano che qualcun altro li scopra. 
Lo faranno da sole, perché avranno scelto di non essere schiave.

Ed è allora che ho scoperto che non volevo essere né quella donna, né l’altra.
Che desideravo sentirmi una leonessa, perché così non sarei mai stata schiava dell’accondiscendenza altrui. Perché mi sarei sentita sempre forte abbastanza, così da non aver alcun timore di palesare le mie debolezze.

Perché chiunque scelga di far parte di una simile categoria lo sa. 
Che quando avverti che le debolezze ti portino a fondo come un fiume in piena, questa può rivelarsi invece un’opportunità per sentirsi più forte.
Che il silenzio o le urla ti rendono solo una persona timorosa o una persona egoista.
Che spesso è necessario porsi al centro per guardare il mondo circostante con la giusta equidistanza.
Che in fondo i tuoi bisogni sono importanti, e dovrai esserci tu quando sarà il momento di soddisfarli. 

Che non esiste assenza più incolmabile di quella di non esserci per se stessi.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

martedì 26 gennaio 2016

Quando per innamorarsi servono gli occhi degli altri

A lui avrei perdonato tutto. Anche il maglione con i richiami natalizi, che da brava veterana, ho deciso a malincuore di lasciare al freddo delle mensole nell’armadio già da una ventina di giorni, subito dopo la fine delle festività natalizie.
Su di lei, invece, ho avuto delle riserve sin da subito. Ma a primo impatto, non le avrei mai perdonato le calze color carne, le ballerine ed il giubbotto di pelle nonostante fuori piovesse e ci fossero zero gradi. In fondo lo sanno tutti, le ballerine sono perfette per le giornate di pioggia.

I due erano in un pub, poggiando i gomiti sul bancone di legno massiccio, e mi erano di fronte quando lui le offriva da bere e le versava la birra in un bicchiere di cristallo.
Sarebbe stato un gesto di gentilezza qualunque, se lui non l’avesse guardata in quel modo. 
Come se dovesse fare qualsiasi cosa gli fosse concesso per meritarla, come se si sentisse non abbastanza. Come se domani fosse troppo tardi, perché lei sarebbe già stata di un altro.

La annusava, come se le sue narici non fossero in grado di percepire nessun altro profumo se non quello della sua pelle. Le toccava il braccialetto che aveva al polso e poi le ha detto qualcosa che le ha fatto accennare un lieve sorriso sul viso, mentre lui ha cominciato a ridere di gusto. 
Poi le ha portato una ciocca di capelli che le si poggiava sulla fronte nascondendole l’occhio sinistro dietro l’orecchio. 
Ad un certo punto però le avrà detto qualcosa che l’ha infastidita. 
Così lei ha accantonato il modo disincantato di lui di essere uomo accondiscendo al suo celato desiderio di sentirsi donna il doppio.
Il suo modo semplice di farsi entrare dentro il suo profumo, nonostante non si riuscisse a percepire altro che quello del malto d’orzo impregnato persino nel bancone di legno massiccio.
La sua risata incontrollata, anche quando lei vi ha posto un freno.
Il suo desiderio di volerla guardare dritto negli occhi scostandole i capelli che le coprivano il viso.

Cosí si è irritata. Il suo corpo si è irrigidito, mentre sorseggiava la birra come fosse un sistema per scaricare l’ansia. Immagino che lei sperasse che continuasse tutto come stava andando sino a quel momento. Ma invece lui è tornato al suo posto, sedendosi su di uno sgabello libero a qualche centimetro in più di distanza.

Poi li ho persi di vista, ma ho cercato di immaginare un finale che fosse verosimile.

L’unica immagine che la mia mente è riuscita a concepire è stata quella di lei che si strappa i capelli per lui, e di lui che, invece, preso dalla disillusione di quanto quella donna audace abbastanza da poter indossare un paio di ballerine in una giornata di pioggia non fosse poi così speciale, l’aveva scaricata.

Perché in fondo noi donne siamo fatte un po’ tutte così: crediamo di essere speciali, e questa convinzione diventa la più grande delle nostre frustrazioni.
Per questo ci fa credere che dobbiamo dimostrare il nostro essere donne nel tenere tutti alla larga e nell’imporre sempre le nostre condizioni. E spesso ci rende anche cieche.


Perché magari avessimo gli occhi degli altri. Saremmo in grado di innamorarci più spesso della persona giusta.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

mercoledì 30 dicembre 2015

Quando tutto diventa un alibi

L'altro giorno la pigrizia ha miracolosamente abbandonato il mio corpo, cosí ho pensato non avessi più alcun alibi per non andare in palestra. E dato che di alibi me ne procuro già abbastanza, ho ceduto alla tentazione di non farlo anche stavolta, accarezzata da un lieve venticello e da raggi di sole stranamente tiepidi per una giornata di fine dicembre.

E proprio mentre ero lí, a contare i minuti che mi separavano tra il tapirulan ed il poggiare i piedi su di una superficie statica che non imponesse alcun esercizio fisico, il mio sguardo si è poggiato su di un uomo, nemmeno troppo anziano, che indossava una maglia giallina a mezze maniche, un pantalone chiaro e delle scarpe marroni. 

La mia attenzione è calata su di lui, come luci su di un sipario, non perchè indossasse un abbigliamento poco sportivo e forse non consono ad un ambiente come quello. Ma l'uomo andava in giro per la sala con un bastone con cui si aiutava per passare da un attrezzo all'altro, prima di lasciarlo quando trovava qualcos'altro cui appoggiarsi. 

Vederlo girovagare per la sala tra busti che sembravano scolpiti nel marmo lo rendeva quasi diverso dagli altri. Ma quando saliva su di un attrezzo qualsiasi, ponendo il bastone vicino la parete alla sua sinistra, diventava come gli altri: uno che, in una giornata di fine dicembre, dai raggi di sole stranamente tiepidi, aveva deciso di allenarsi. Con quegli indumenti lí. Nonostante fosse claudicante. Nonostante non riuscisse a camminare se non per aiuto di un bastone.

Ed allora ho speso l'intera mattinata in palestra ad osservarlo, quasi come se volessi emularlo. 
Perchè in fondo è vero che siamo i primi boicottatori di noi stessi.
Lo facciamo con i nostri desideri, quelli cui ad un certo punto attribuiremo l'aggettivo dell'impossibile, solo per non ammettere di non averci creduto abbastanza.
Lo facciamo con le circostanze che avremmo voluto vivere, se solo non avessimo avuto paura di saltarci dentro anche quando tutto ci diceva di non farlo.
Lo facciamo con le persone, quando ci convinciamo che non hanno fatto abbastanza, senza contare ciò che noi, invece, avremmo potuto fare.
E lo facciamo con la nostra felicità, quando crediamo di non poterla meritare.

Ho cercato, per giorni, qualcosa da aggiungere alla lista dei buoni propositi di quest'anno.
Come un rituale che osservi nonostante finisca tra quelle abitudini che forse non inizierai mai.

Ma poi ho capito che quest'anno non ci sarebbe stata alcuna lista nè un alibi che giustificasse le mancate scelte.

Quell'uomo è diventato il simbolo di un anno in cui ho spazzato via gli alibi sull'uscio della porta, e mi sono arrampicata, anche quando credevo potessi cadere. Ma nonostante tutto, non ho smesso di farlo. E quando non potevo, mi costruivo un bastone e proseguivo, insieme a lui.

C'è l'abitudine di augurarsi che l'anno che verrà sia sempre migliore del precedente.
Io invece lo desidero esattamente cosí come è stato.
E di scoprire, solo alla fine, cosa hai imparato e chi sei diventata.
Come guardare un film muto in una sala per pochi.
Attraverso chi, intanto, ti sta insegnando che a poco conta augurarsi il meglio, se prima non sei tu ad andartelo a prendere. A qualsiasi condizione, e con ogni mezzo.

Quell'uomo me lo stava insegnando, in una giornata di fine dicembre qualunque.
Che siamo tutti scalatori, amatoriali o professionisti, con una meta da raggiungere.
Ed i mezzi, spesso, riducono i limiti. Le ragioni li vanificano.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

lunedì 28 dicembre 2015

Gocce di empatia

Empatia.
Nel linguaggio psicologico, è una forma di immedesimazione negli stati psicologici dell'altro a cui sarebbe subordinata la spiegazione, o "comprensione", del suo comportamento. In sostanza, la capacità di porsi nella situazione di un'altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell'altro.

Io invece ho sempre pensato fosse un altro modo per comunicare.
Quello che si sceglie in modo naturale quando non c'è altra alternativa alla distanza.
O quello che si scopre imparando ad osservare qualcuno che ci è sempre accanto.
Quel linguaggio che lega fili di silenzio in un mucchio e che ad un certo punto si lascia cadere, cosí che ogni filo scivoli via per raggiungere l'altro, senza alcuna possibilità di essere riavvolto.

Ho sempre creduto vi fosse un modo di sentire differente.
Quello che di fatto appartiene già a chi sente troppo tutto.
A chi è in grado di cambiare la vita di qualcuno, ma sempre con la massima cautela.
A chi entra nella tua vita e prima di andar via ti chiede perdono.
A chi rovescia tutto e prima di gettarne i cocci cerca di rimetterli insieme.
A chi prima di attaccare una fotografia alla parete, pensa alla parete appiccicosa che non andrà più via se un giorno deciderai di rimuoverla.

Ho sempre creduto che una cosa come questa appartenesse a queste persone qui.
Quelli che si prendono cura di te al punto da pensare a quello che potrai essere un domani e mitigare le loro scelte per non compromettere quelle che forse un giorno potranno essere le tue.
È una sorta di missione. Entrano dentro di te, senza sconvolgerti la vita.

Credevo che potesse essere una qualità da apprendere o una di quelle con cui ci devi nascere.

Invece ho capito che si trova.
Per caso, in un giorno qualsiasi, o negli occhi di chi al principio ti apparirà come uno qualunque.
Si addiziona, come un'operazione algebrica.
Si moltiplica, come una radice quadrata.
E poi si mescola, come una poziona magica.

Prendi uno, per esempio, che creda di conoscerne già il procedimento, ed un altro che non si sia mai interrogato sulla possibilità di farlo.
Li metti insieme ed entrambe capiscono che ne vale la pena.
Chi credeva di conoscere tutto ciò che bastava, imparerà a conoscere ciò che credeva non potesse meritare.
Chi credeva di non saperlo fare, apprenderà ciò che credeva non potesse esistere.

Uno dei due pronuncerà quello che avrebbe detto l'altro appena un attimo dopo, se solo i suoi attimi durassero meno.
Entrambe colmeranno le distanze con gesti di pochi secondi, che appariranno come attimi di gioia infiniti.
Riusciranno a mettere in ordine le cose, lí dove era giusto che stessero.
Saranno gli unici in grado di comprendersi anche in silenzio.
Perchè avranno scoperto come sentirsi, in tutti i modi in cui sia possibile farlo.

E niente, questa è l'empatia.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.




domenica 29 novembre 2015

Una casa normale

Adesso vivo in una casa normale. A me piace chiamarla cosí.
Quella dove esiste un confine reale tra la tua camera da letto, il soggiorno e la cucina.
Quella in cui hai piazzato un divano, finalmente comodo, su cui spendere il resto delle tue giornate dopo il lavoro, o che potrà diventare una plausibile sistemazione di chi, si spera, ti verrà presto a trovare.
Quella in cui c'è spazio in sovrabbondanza, per comprare finalmente un mobile in cui riporre i tuoi libri su di ogni scaffale ben in vista. Dove appendere alle pareti un quadro che ti piace tanto e delle fotografie, quelle che ti hanno seguito ovunque tu sia andata, come a voler svelare parte della cesta dei tuoi ricordi, ma mai abbastanza.

Quella in cui per i tuoi vestiti non ci sarà mai abbastanza spazio, ma almeno riuscirai ad identificarli nel tuo armardio nuovo più capiente, ancora con gli occhi gonfi di buon mattino, senza convincerti di averli maldestramente persi. E poi dove?

Quella che per tre giorni di fila hai rassettato con cura, rimuovendo ogni briciola dal parquet, ordinando tutto a tua immagine e somiglianza, perchè si sentisse nell'aria il tuo profumo, perchè raccontasse qualcosa di te, perchè sembrasse perfetta nonostante le tue imprecisioni.

Come un traguardo che pensavi non potessi mai raggiungere, eppure è arrivato prima del previsto. Proprio mentre ricordavi il tuo soggiorno in una casa per dodici, con una pila di piatti di sporchi nel lavabo che avrebbero atteso il ritiro dei soldati in Afghanistan per essere puliti e la carta igienica nascosta come fosse un prezioso arsenale. Mentre ricordavi, accennando un sorriso, il tuo passaggio in una casa con la metà dei coabitanti, ma pur sempre un campo di battaglia. O mentre ricordavi, appena un anno fa, quando mettesti piede in una casa, piccola ma accogliente, che fosse solo per due. Dove il confine tra la camera da letto, il soggiorno e la cucina era inesistente. Dove ti sei convinta che il divano fosse comodo, nonostante non lo fosse. Dove riponevi i tuoi libri in cima all'armadio, che risploveravi di tanto in tanto. Dove non c'era spazio a sufficienza per appendere ai muri tutti i tuoi ricordi, qualcuno lo lasciavi nel cassetto. Dove ogni giorno perdevi una camicia nell'armadio, ma il giorno seguente ne recuperavi un'altra.

Non ho cambiato zona, e nemmeno l'edificio. Sono scesa semplicemente di qualche piano. Ed è per questo, che proprio l'altra sera, mentre ero in giardino ho alzato gli occhi verso quella finestra chiusa al secondo piano, con le luci oramai spente e senza più fiori sul davanzale.
Ho immaginato la mia figura sporta alla finestra e quanti pensieri in poco più di un anno abbia lasciato su quel davanzale.
Ma è successo solo quella sera. Ho deciso di lasciarli lí, almeno quei ricordi, perchè qualcuno meritava di essere spento come le luci di quella casa.
Ho capito che non avevo bisogno di portarli con me. Avrei voluto, forse, ma probabilmente sono stati loro a scegliere di non seguirmi, per rimanere in una stanza buia, dalle pareti bianche, lasciando che sia il silenzio a colmarli.

Perchè tutto cambia. Le circostanze, le emozioni, le persone, ed anche i ricordi. E cambiano perchè a mutare è il modo con cui a loro ci rapporteremo.

Ma in ognuna di queste fasi ricordo quella sensazione. Palpabile, come il terreno bagnato dopo una giornata di pioggia, e percepibile, come l'aria fresca che al mattino ti entra nelle narici. Mi bastava, ed è sempre stato cosí.

Non desideravo una casa diversa, perchè quello che adesso chiamo "passaggio alla normalità", sapevo di dovermelo guadagnare e che, un giorno, sarebbe arrivato, tra lo stupore del sentirmi felice perchè ho un mio spazio per scrivere, uno per leggere, uno per dormire, un altro per cenare, ed un altro in cui prendere aria anche se piove.

Non sapevo che volto avesse questa felicità, nè che nome attribuirgli. Ma adesso la rivedo in tutti i luoghi precedenti cui ho sempre attribuito nomignoli simili ma mai identici, come fossero un ponte per arrivare a quella che è, e che ancora forse dovrà essere.

Perchè ci vuole cura per far crescere un cuore.
Lo si innaffia a giorni alterni, esponendolo al sole.
Non lo si lascia morire.
Quando muore, lo si butta via e se ne fa crescere un altro.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.


sabato 21 novembre 2015

Occhi sani non conoscono nemici

Ho immaginato di svegliarmi un giorno ed un tratto percepire sulla mia pelle in rancore riflesso negli occhi di perfetti sconosciuti. O di essere io a possedere quegli occhi inquisitori.  

L'ho immaginato mentre lei mi diceva: "Dopo quello che é successo a Parigi, ce l'hanno tutti con noi", raccontando di essere stata verbalmente aggredita da un uomo mentre si trovava in ospedale con sua madre per una visita medica.
Parlando in prima persona, ma al plurale, presupponendo che dall'altra parte ci sia un "voi", ed in mezzo un deserto a separarci. Lei era il noi, io ero il voi. Intercambiabili a seconda del punto di vista dell'interlocutore.

Lei è una mia collega, cui ho scelto di dare un nome di fantasia. Allora facciamo pure che ve la presenti con un nome "occidentale", tipo Monica.


La famiglia di Monica è originaria del Bangladesh, ma lei è nata in un quartiere a Nord di Londra. Non so di che colore abbia i capelli, nè se li porti lunghi o corti, perchè indossa sempre un burka nero in tinta con i colori sobri degli abiti che indossa. Le chiedo spesso di insegnarmi come mettere l'eye liner con la sua stessa precisione, senza rischiare di sembrare un panda ogni volta. Ma probabilmente, nemmeno se riuscissi ad apprenderlo, sortirebbe su di me lo stesso effetto elegante che ha sopra i suoi occhi neri e dal taglio lungo.

In pausa pranzo evitiamo i ristoranti cinesi, perchè dice che non si fida. Potrebbero facilmente spacciare il pollo per halal anche quando non lo è, dice lei.

Quando andiamo al pub il fine settimana, è l'unica ad ordinare una coca cola. Tempo fa, quando ho fatto il vaccino contro l'influenza, mi ha stretto la mano mentre giravo i polsini della camicia e l'infermiera si preparava a farmi entrare l'ago nel braccio. Perchè a ventisei anni, ho ancora paura dell'ago. E lei, nonostante avesse di fronte una donna poco più grande di lei, mi ha detto sorridendo: "I'm proud of you", una volta terminato, assicurandosi ricevessi una caramella alla frutta subito dopo, come fosse un premio, come si fa per un bambino terrorizzato. 

Monica non ha mai conosciuto la guerra.
Non ha mai visto il cielo del Medio Oriente.
Non ha mai annusato l'odore della polvere da sparo.
Non sa maneggiare un kalashnikov.
Non ha un fidanzato di vent'anni più grande di lei.
Non pensa di diventare la schiava di nessun uomo. Probabilmente una madre, ma è ancora troppo presto.
Prega Allah, perchè questo è il nome del suo Dio. Ma organizza un minuto di silenzio per la commemorazione dei caduti inglesi nella guerra mondiale, cosí come per le vittime degli attacchi a Parigi.
Monica non ha la minima conoscenza sull'educazione impartita ai bambini nei villaggi sotto il controllo dell'Isis. Gliel'ho raccontato io, in modo approssimativo, dopo aver visto un documentario.
Invece lei mi ha detto che il principe dell'Arabia Saudita ha più di centoventi figli e trenta mogli, ma che nonostante il loro sangue blu, non vorrebbe mai essere tra queste, e nemmeno essere associata ad una cultura cosí estremista.

Monica è musulmana. Fa parte di quel "loro" che attribuiamo ad un popolo intero, suddividendoli per sottocategorie cui riserveremo lo stesso sguardo. Quello che attribuisce loro colpe di altri. Che li guarda con lo stesso spavento di chi crede che potrebbero farsi saltare in aria da un momento all'altro, e noi con loro. Quello sguardo che li etichetta come impositori di una cultura ed una religione pronte a smembrare le nostre.
Perchè in fondo, chi è che il giorno dopo gli attacchi terroristici di Parigi non si sia imbattuto in uno di loro e non li abbia guardati con rabbia, o semplicemente con spavento. 

Ed anche Monica ne era a conoscenza, non appena ha aperto la porta dell'ufficio, che quello non sarebbe stato un ordinario lunedí come gli altri. E l'ho capito quando ogni pretesto si è per lei trasformato in un motivo giusto per parlare della sua religione, della sua cultura, della sua gente, per spiegare il suo punto di vista, cosa che prima non aveva mai fatto. 

E lo sapeva anche lui, cui darò un altro nome di fantasia, tipo Marco. Ma che quel lunedí ha scelto di reagire in modo diverso. 
"Ho visto che hai scritto qualcosa su Parigi", mi ha detto.
Ed io ho soltanto annuito, perchè per me si trattava di un lunedí diverso dagli altri, ma pur sempre un lunedí in cui fatico per le prime ore del mattino a mettere insieme frasi di senso compiuto.
Ed allora pensando che avessi scritto qualcosa di male che non sarebbe stato in grado di tradurre, mi ha detto: "Mi dispiace, sono solo degli assassini."
Ed io, ascoltando quella frase, ho sentito il bisogno di svegliarmi sul serio tutto d'un tratto. 
Perchè l'aria era pesante e ho avvertito quanto sentisse il peso della giustificazione per qualcosa di cui lui non era colpevole. Quanto mettesse sulle mie spalle il peso di una superiorità che non desideravo possedere. 
Cosí ho rotto il silenzio aprendo la busta dei biscotti che abbiamo messo al centro del tavolo per mangiarne qualcuno insieme. È stato il primo gesto istintivo, per smorzare quell'atmosfera che più che paura, sapeva di qualcosa di irreale che intanto si consumava di fronte i nostri sguardi impotenti.

Ma è ciò che è accaduto in un lunedí che poteva essere come tutti gli altri, ma che purtoppo non lo è stato. 
Perchè io ho sempre detto di essere cristiana, loro musulmani. Ma se l'avessimo saputo, avremmo forse evitato di puntualizzarlo troppe volte, per non scambiarci pesi gli uni con gli altri, che nemmeno ci spettano. Per non aspettare risposte o rassicurazioni che non siamo tenuti ad offrire.

Ma la domanda che mi sorge spontanea non è se questa sia una guerra giusta o sbagliata. La sola idea che si faccia chiamare guerra, dovrebbe d'istinto metterci tutti uniti e puntargli il dito contro. 

Vorrei piuttosto sapere cosa state insegnando ai vostri figli o nipoti, per comprendere cosa possa insegnare ai miei tra qualche anno. 

Come faccio ad insegnare a mio figlio che quelli con la barba lunga e la carnagione scura, quelli che riconoscono in Allah il proprio Dio e ne Il Corano il loro testo sacro, sono diversi, per questo potenziali nemici?
Come faccio ad insegnare a mio figlio che gli esseri umani non sono tutti uguali, e che esistono culture superiori alle altre?
Come faccio ad insegnare a mio figlio che aggredire fisicamente o verbalmente qualcuno non è una cosa giusta, ma se il soggetto in questione è il nemico cui tutti sembrano aver dato quel volto, potrebbe essere giustificato?

Non so che state dicendo ai vostri. Io sono sicura che al mio lascerò la libertà di scegliere cosa sapere solo dopo aver sperimentato, lasciandolo solo in quest'esplorazione.

Perchè so già, con molti anni in anticipo, che alla fine lo capirà anche lui o lei. 

Che Monica e Marco non rappresentano il nemico. Che se pensiamo possano esserlo, saremo destinati a possedere occhi inquisitori. Quelli che osservano il diverso con disprezzo, rinunciando alla curiosità dello scoprire.
Spero allora che, come me, sceglierà di avere occhi sani. Che non significa svuotarsi completamente dalla paura, ma trattare tutti con grazia, non avere inutili pesi sul cuore, guardare tutti come esseri umani, per riuscire a domarla.

Ve l'ho voluto raccontare, per lasciare a voi la possibilità di scegliere da che parte stare.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

domenica 15 novembre 2015

"Nostre amour de la vie n'est qu'une vieelle liaison..."

Da poco più di quarantotto ore tutto il mondo si stringe al dolore del popolo francese.
Lo si fa un po' tutti, mentre c'è chi chiama bastardi un intero popolo: uomini barbuti, donne con il burka, bambini, tutti. Come se fosse un dato precostituito che tutti siano armati di kalashnikov o pronti a farsi saltare in aria.

Mentre c'è chi richiama chi vuole pregare, perchè piuttosto sarebbe più importante pensare.
Mentre c'è chi si azzuffa su chi abbia delle reali responsabilità.
Mentre c'è chi, alla cieca, getta nella cesta dei colpevoli tutti: dall'Oriente all'Occidente.
Mentre c'è chi è pronto a stanare l'ultima gaffe di un qualche politico di turno, per poi non risparmiarci nemmeno il commento.
Mentre c'è chi asserisce che ogni giorno si muore, non solo a Parigi.

Ed è vero che non esistono morti di serie A, B o C. Ma il pensiero che quasi 130 morti in casa nostra scuotano più di mille in altre parti del mondo, sfugge alle regole di logica anche dell'animo più sensibile, purtroppo.

Ma oggi è a lei cui ho rivolto il mio pensiero, a Valeria. Alla studentessa della Sorbona trovata morta nell'attacco al Bataclan. E non perchè la sua morte valga più delle altre centoventotto, nè di quelli che ogni giorno perdano la vita in quei Paesi che non abbiamo mai visto con i nostri occhi, ma in cui sappiamo solo che tutto ciò avviene a scadenza quotidiana.

Perchè lei incarna quello che siamo anche noi, forse, quando prepariamo una valigia per dirigerci all'estero. Quando la carichiamo di tutte le aspettative che la vita può riservarci solo se ad essa ci apriamo abbastanza. Quando decidiamo di andare in un altro Paese per studio, lavoro, o solo alla ricerca di qualcosa che sia lí ad attenderci per cambiare il corso delle nostre vite. Quando crediamo in un' Europa unita che sia pronta ad accoglierci e a cui daremo il meglio di noi. Quando crediamo in un mondo che è cosí grande da poterci districare liberamente. Quando crediamo che non esistano confini segnati da una lingua diversa, da una cultura distante dalla nostra, e forse anche da una religione, perchè, alla fine, apprenderemo tutto cosí da poterlo rendere parte della nostra quotidianeità. E quello che non possiamo imparare, cercheremo di comprenderlo, ed accettarlo, comunque.

Perchè oggi i genitori di Valeria, sono anche un po' i nostri. Quelli che supportano un figlio in ogni sua scelta. Quelli che gioiscono al solo pensiero di vederlo tornare di tanto in tanto, anche solo per vedere il letto disfatto. Quelli che si stringono, con dignità, in un dolore che non è paragonabile a nulla: scoprire che il proprio figlio non riuscirà mai più a raggiungere la casa in cui è cresciuto.

Potevamo essere Valeria, o qualcun altro. Potevano oggi essere i nostri genitori a piangere.

E sí, la paura. Quella paura che possa riaccadere. Quella che non conosce nessuna dimensione, o spazio temporale, o area geografica. Quella che non risparmia nessuno e che ci rende tutti schiavi.

Ma come diceva Marcel Proust: "Nostre amour de la vie n'est qu'une vieelle liaison, dont nous ne savons pas nous débarrasser - il nostro amore per la vita non è che un vecchio legame di cui non ci sappiamo sbarazzare".

Lasciamo che lo sia. Lasciamo che sia l'antidoto più prezioso per vincere la paura. Lasciamo che lo sia, nonostante il dolore. Questo non dovrà togliercelo nessuno. Come se si immaginasse di passeggiare per le strade sulle note della vie en rose, in un mondo simile a quello di Amelie, come se si partecipasse a jeaux d'enfants.

Il mondo è diventato un posto invivibile, ma se ci si arrende a questo postulato, significherà che avremo già perso.



Quando torni? il mio romanzo che affronta l'altra faccia della migrazione in Regno Unito, dando voce alle storie degli italiani che lasciano il proprio Paese. Disponibile in ebook su Amazon, Itunes, Scribd, Kobe, Barnes&Noble, Smashwords e Lulu.com e su quest'ultimo anche in versione cartacea.