sabato 18 giugno 2016

L'ho chiamato semplicemente amore

Ogni volta che apro il frigorifero impiego circa una decina di minuti nel decidere se sia meglio consumare i cibi di prossima scadenza o quelli che invece desidererei maggiormente.
Lo faccio, tutte le volte, nonostante sappia benissimo sin dal principio quale sarà la mia scelta.
Perchè sceglieró sempre i primi a discapito dei secondi.

La considero una scelta obbligata ma intelligente. Non mi piace gettare via il cibo, mi dico. E con ogni probabilità, la volta successiva mangeró i secondi, che però al giro successivo saranno diventati come quelli per cui avevo optato la volta precedente. Quasi avariati.

L'altro giorno, mentre pensavo al mio modo di scegliere 'intelligentemente' cosa mettere nello stomaco, ho pensato che per una volta avrei potuto contravvenire alle regole.
Cosí, oltre a sentirmi meglio, mi sono saziata di più.
Una volta ogni tanto. Non capita quasi mai, ho pensato.
Ed è stato in quel momento che ho realizzato quanto riuscissi ad adottare questa modalità di scelta anche per tutto il resto, preferendo, quasi sempre, situazioni su cui attacco un adesivo con sù scritto 'da consumarsi preferibilmente entro il ...' a quelle che mi lasciano con il fiato sospeso ed il cuore in gola perchè si disperdono nell'universo come residui di esplosioni stellari che non riuscirai mai a toccare, ma a guardarne la scia da lontano, forse, molto tempo dopo, quando non esistono già più.
Preferendo, spesso, le vite degli altri. Pensando sia giusto cosí. Pensando che in fondo, possa trasformarsi anche nella propria.

Ma da quando ho gustato ció che preferivo nel momento esatto in cui non desideravo altro, disinteressandomi delle scadenze sovrapposte sulla confezione, ho capito che farò sempre cosí.
E non significa contravvenire alle regole.
Nè scegliere in modo poco intelligente.
Ma nutrire e cacciar fuori da ogni poro della propria pelle il rispetto per se stessi, per quello in cui si crede, per ció che in fondo si vuole.

Perchè non esistono regole che ti impongono quando scegliere qualcosa che ci sta a cuore, nè quale sia il modo più intelligente per dargli una forma.
E non esistono mali che ti perseguiteranno, se non il rancore di non averlo fatto.

Gli ho voluto dare un nome.
A questo modo di decidere e a quello che con questo poi si diventa.
A quello che si prova nel farlo.
Gli ho dato un nome banale.
L'ho chiamato semplicemente amore.
Qualsiasi sia la forma, la sostanza, il volto, il profumo ed il colore che gli si voglia attribuire.
Perché non ha scadenze contro le quali si possa combattere, né tempi, illusori, che possano farci credere che finisca, né regole da imporre se non quella che nessuna possa essere così forte rispetto il desiderio di gettarle all'aria.

Perché esistono infinite strade.
Ma sempre una che non riuscirai a non imboccare, anche quando sentirai di averla invece smarrita.

domenica 12 giugno 2016

Spalle sul mondo

Pensavo che il mondo si dividesse in due categorie: quelli che svestendosi di qualsiasi rimorso si sdraiano con la schiena nuda sulle possibilità del mondo, lasciandosele scorrere lungo tutto il corpo e dilatandosi, insieme a loro, ad ogni loro cenno di espansione. E quelli che inghiottono rimpianti, lasciando che questi annichiliscano l'anima rendendo sempre più freddo il pavimento ruvido su cui si sono imposti di rimanere.

Gli uni e gli altri.
Diversi nel loro approccio alla vita, ma simili nei loro desideri.

Ma è stato proprio quando ho constatato ambedue le dimensioni, quella che mi vedeva con la schiena nuda a fare a cazzotti col mondo purchè su di essa fosse dipinta anche solo una fetta dell'universo che immaginavo, e quella che invece mi vedeva ricurva ad accettare ogni cosa mi si presentasse, che ho invece scoperto l'esistenza di un'altra.
Una di quelle che si pone in bilico tra l'accettarsi e l'accettare.
Che rinuncia alle mezze misure per crearne di proprie, soltanto per sè.
Una di quelle che comprendere è una virtù, il perderle di vista un atto di vigliaccheria, verso se stessi.

La immagino come una spiaggia deserta.
O come un campo di girasoli su cui batte forte il sole.
Come quei luoghi in cui riconosci che non puoi prenderti tutto, ma solo quanto basta.
E se non ti basta non è che te lo fai bastare, ma ti approprierai di quello che ti spetta, lasciando il resto al caso.
Farai come chi, sdraiato con la schiena sul mondo, farà di quest'ultima una cartina, i cui contorni saranno disegnati da volti e da emozioni. Da circostanze e da bivi dinanzi i quali scegliere. Da strade da percorrere e da possibilità, colte o cedute.
Perchè alla fine non sarà importante quanto sia scritto lungo tutto il tuo corpo, ma con quanta passione tu abbia voluto dipingere tutto ciò che il tuo corpo racconta.
Ed è cosí che, ad un certo punto, saprai anche dire basta. Perchè ti sarai riempito di cosí tanta bellezza che non ci sarà più nulla da aggiungere, anche quando avresti immaginato contorni diversi da quelli raffigurati.

Riuscirai a fermarti, ma lo farai per te stesso.
E per quella voglia matta di non annichilirti lasciando che le tue guance restino schiacchiate su di un pavimento freddo.
Ma per incidere su di te altre storie.
Altre strade.
Altri paesaggi.
Altri volti.
Altre emozioni.
Per cercare altri corpi, forse, che sapranno sdraiarsi con te, dando le spalle a quel mondo in cui avevi sempre immaginato ci fossero soltanto due possibilità: espandersi con forza e passione o guardare dal basso.
Per poi scoprire o lasciarti insegnare che talvolta bisogna anche alzarsi ed andare.
Il bilico tra l'accettare e l'accettarsi consiste proprio in questo: avere occhi profondi da poter cogliere tutto, e spalle possenti abbastanza da poterti voltare e disegnare altre vie.

giovedì 2 giugno 2016

La vita é cosí: una serie infinita di calcoli in cui non esistono risultati perfetti


Molto spesso mi sono imposta delle scadenze al termine delle quali tiravo delle somme.
Questo lo facevo, e tuttora lo faccio, per capire se stia proseguendo nella direzione giusta, dove per giusto non pongo come condizione una serie di equazioni che diano tutte lo stesso risultato, ma numeri messi lì, anche a caso, che nel loro continuo addizionarsi e sottrarsi, moltiplicandosi per poi dividersi, diano un risultato modesto, che possa essere solo il primo di tanti altri.
Come mattone su mattone, un passo dopo l'altro.

Ci sono stati dei momenti in cui il sottrarre mi sembrava la strada più comoda da seguire.
Altri in cui quest'azione proseguiva in modo inarrestabile e non ero io a gestirla.
Momenti in cui invece ho aggiunto numeri aspettando si moltiplicassero con altri.
Momenti in cui questo è accaduto, altri in cui ho capito che l'attesa doveva essere colmata da altro prima che questo accadesse.
Momenti in cui pensavo di condividere, e invece poi ci hanno diviso.

Ma se oggi dovessi dare un nome a tutto questo, non ce ne sarebbe uno appropriato.

Nè momenti, né lezioni di vita.

Perché i momenti fanno pensare a qualcosa di temporaneo, a quegli scatoloni chiusi con il nastro adesivo perché sono fragilissimi e non vogliamo toccarli, né tanto meno aprirli. 
Quelle bolle di sapone in cui soffiamo pochi istanti dopo averle create per annusarne solo il profumo nell'aria, che man mano sfuma, che odora già di passato.
Ed invece questi si collocano in una dimensione senza tempo ed in scatoloni rigidi e tutti aperti, in cui non si annusa la puzza di stantio delle soffitte in cui si nascondono cianfrusaglie inutilizzate.
Sono come numeri che nel loro continuo addizionarsi e sottrarsi, moltiplicandosi per poi dividersi, non abbiano ancora portato ad un risultato esatto e definitivo, nonostante sembri tutto già accaduto.

Nè lezioni di vita, perché tutte le volte che pensavo di aver appreso la lezione, scoprivo che ci sarebbe stato ancora tanto altro da imparare o che, forse, non sarei mai riuscita ad imparare una sola pagina a menadito. 

Ma se c'è una cosa che ho imparato man mano che i momenti si susseguivano e che ricevevo pagelle al termine di ogni lezione, è che non si deve necessariamente dare un nome alle cose, perché non tutte le emozioni, gli attimi, le esperienze ed i bagagli che ci portiamo dietro ne hanno bisogno.

Perché esistono cose che possono avere un metro di paragone, di cui si possono descrivere i contorni, indicare le gradazioni di colori, per cui addirittura immaginare un suono o un profumo.
Ed altre che invece nascono così, prive di connotazione.
E non attendono che tu ne possa trovare una.
Si addizionano perché tu possa credere nella loro esistenza.
Si sottraggono perché tu non possa pensare di poterle possedere per sempre.
Si moltiplicano perché tu possa crederci.
Si dividono, come strade.

Perché la vita é cosí: una serie infinita di calcoli in cui non esistono risultati perfetti.
Una serie infinita di tappe in cui ciascuna sarà come un ponte per l'altra.
Quella in cui non ti sentirai forse mai arrivato abbastanza, fin quando non ti volti e contando i passi che ti separano da dove sei a dove hai cominciato, capisci l'unica cosa che conta: ne è valsa la pena.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

domenica 24 aprile 2016

Le generazioni sono cosí, chilometri da percorrere ignari del tempo che ci vorrà

Ogni tanto mi capita di pensare a come sia accaduto.
Che sia passata dal far parte della generazione ah-perchè-è-già-arrivato-il-weekend a quella che odia il lunedì peggio del ketchup sulla pasta o che santifica il venerdì come fosse una festa comandata.
Che abbia fatto parte della generazione Erasmus, quella che a prescindere da un luogo geograficamente circoscritto, viveva quel momento della vita con slancio ascetico, come fosse un dono divino, un lusso che ci si era concesso, o entrambe le cose, per finire in quella del dove-ci-si-trova-conta-quanto-il-come, anzi talvolta lo influenza.
Che sia passata dal fare la fila per le patatine al Mc Donald's a poi cercare diete dimagranti su google.
Dieta dell'ananas, del limone, del minestrone. 
Perché al tuo posteriore con la forma di patate fritte nell'olio di una settimana, hai preferito una faccia con la forma di ananas, limone, minestrone, o checchessia.

Ma pensavo che le generazioni sono proprio così: finite. Un lasso temporale tra il prima ed il dopo che ci culla fin quando non giungerà il momento in cui sia giusto lasciarci andare.
E cosí saremo stati quella generazione prima di entrare in quella successiva che però non sarà mai la definitiva. Ma le saremo tutte, in egual misura. Ed il bello sarà riuscire a contarle e scoprire di non avere abbastanza dita per reggerne il conto.

Allora saremo la generazione delle corse il primo giorno di scuola per arrivare ad occupare l'ultimo banco in fondo a sinistra. Quella delle corse il primo giorno di università per trovare un posto dove sedere, uno qualunque. Quella delle corse il giorno del tuo primo colloquio importante per arrivare in anticipo. Quella delle corse, nella vita, per non arrivare mai ultimi.

Saremo la generazione di chi sceglieva il compagno di banco per condividere un intero anno spalla a spalla. Di chi, inconsapevolmente, sceglieva quelli universitari con cui condividere i propri dolori intestinali prima di un esame. Di chi poi, ad un certo punto, ha cominciato a selezionare i propri compagni di viaggio, quelli della vita.

Saremo la generazione che trovava amici dappertutto, quella che per trovarli doveva fare due passi e bussare un campanello, per finire poi in quella in cui per incontrarli deve prenotare un biglietto aereo e girare l'Europa, non più attraversare la strada.

Saremo la generazione delle farfalle allo stomaco, del contare le ore che ci separano dal primo appuntamento con il ragazzo cui abbiamo fatto il filo per mesi. Quella del se-non-mi-chiama-gli-invio-un-messaggio. Quella del se-non-mi-chiama-può-andare-al-diavolo. Quella del sono-qui-chiedimi-di-rimanere. Quella del resto-anche-se-non-me-lo-hai-mai-chiesto. Quella generazione in cui nessuno chiederà niente all'altro, perché l'importante sarà esserci. Lui per noi, e noi per lui.
Quella in cui forse il fato deciderà che dovremmo farne a meno, ma noi saremo lì, ad accoglierlo, comunque, perché in fondo, penseremo, l'importante è che siamo ancora vivi per affrontare la vita.

Saremo la generazione delle grandi aspettative, quella delle illusioni confezionate con carta regalo, per passare in quella del "No, grazie, a questo gioco non ci sto più."

Saremo la generazione che per un attimo penserà di avere il mondo in un pugno. Quella che sentirà il peso del mondo. Quella che poi, ad un certo punto, capirà che l'uno o l'altra sia servita per farci diventare quello che sarà più congeniale essere: un granello di sabbia che sfugge a chiunque voglia costringerci a spazi stretti, quello che seguirà i soffi di vento, prima di fermarsi sulla terraferma, dove ne saranno approdati altri, nella stessa modalità o forse diversa. E lí non saremo i padroni del mondo nè sarà lui a tenerci tra le sue mani, ma saremo i padroni del nostro destino, che potrà mutare tante volte, a seconda di come butterà il vento.

Saremo la generazione Erasmus, della vita vissuta come un attimo irripetibile, delle feste in casa, delle diagnosi partorite leggendo wikipedia, dello sperimentare il diverso, del comunicare in una lingua sconosciuta fino ad allora, del sentirci parte di qualcosa che abbia il volto di persone cui riserveremo sempre un posto speciale, nel luogo più profondo che un giorno avevamo chiamato casa per poi capire che sarebbe stato qualcosa di più: quello in cui, attraverso l'altro, abbiamo imparato a conoscerci senza mai dubitare di poter diventare quello che si sognava di essere.
Saremo quella che farà tesoro di tutto, anche quando un giorno si troverà ad osservare le proprie parrucche di colori differenti su di una mensola della propria stanza, le fotografie incorniciate per mantenere vivi quei ricordi, quelli che, sempre, ci faranno ridere di gusto, anche se un tempo non avevamo mai pensato di riuscirlo a fare.
Quella che sognava di scoprire a quale spicchio di mondo sarebbe stata destinata.
Quella che lo scopre e vi comincia a piantare radici.
Quella che, ignara, comincerà a chiamare radici mattoni, e mattoni poi casa.

Quella generazione che morirà di felicità, e poi di malinconia. Di malinconia e poi di felicità.
Prima di arrivare a quella in cui le due si combinano, perché non riuscirà a fare a meno né dell'una né dell'altra.

Quella generazione che credeva che le cose importanti non ci avrebbero mai lasciato, per poi passare a quella in cui conteremo quelle che invece non ci hanno abbandonato.
Ma poi, un giorno, entreremo in quella per cui l'una e l'altra ci avranno insegnato qualcosa che nessuno ci aveva detto in partenza: che nella nostra continua transizione, cambiamo come il passaggio delle stagioni, come la fine di una generazione e l'inizio di un'altra. Ed è così che scopriremo che talvolta le cose importanti le potremmo scoprire soltanto vivendo, e che spesso, come diceva qualcuno, devono ancora venire.

Le generazioni sono cosí: chilometri da percorrere ignari del tempo che ci vorrà.
E quante più ne passeremo, tanto più profondi saranno i nostri occhi.
Ignari che siamo noi a decidere tutto, la partenza così come la meta.






domenica 3 aprile 2016

La stagione della resilienza

Ho capito quanto la resilienza fosse parte integrante di un processo di cambiamento solo dopo esserci entrata dentro tante volte.
Quando le cose non riuscivano a cambiare me ed allora io cambiavo le cose.
Solo quando ho capito che ci saranno sempre mille strade alternative per non sbatterci contro, ma solo una che vale la pena percorrere. Quella nascosta, a tratti invisibile, buia, dal selciato fangoso e a tratti impervio, ma la più vera. Quella in cui non incrocerai sempre volti gentili, né sorrisi raggianti, né sempre una mano tesa in tuo soccorso ogni volta che la vorrai.

Ma ho anche capito che la resilienza non è un qualcosa di innato.
Né di logicamente precostituito, per cui se si è pronti al cambiamento significa che lo si debba accettare escludendo automaticamente qualsiasi peso dal cuore.
E nemmeno un qualcosa che va insegnato.

Lo si impara, come fosse una regola da porre in cima alle nostre priorità.
E lo si amalgama a tutto il resto, come un ingrediente aggiuntivo che seguirà ogni avvenimento.
Come pochi granelli di zucchero in una tazza di caffè.

Ne si assume consapevolezza scrutando negli occhi di chi non avremmo mai voluto incontrare se avessimo optato per un percorso alternativo.
Ma anche di chi ci ama, mentre ci promette che andrà tutto bene.

Ed allora impareremo a sfidarla.
Davanti le rimanenze di un take-away della sera precedente preso in un ristorante cinese, pur essendo un giorno di festa.
Davanti scatoloni da riempire per traslochi imminenti da trasportare chi sa come.
Davanti un armadio che sarebbe stato sempre troppo pieno o valigie troppo piccole per portare con me ogni cosa.
Quando certe parole devono bastare per colmare le distanze, pur non attutendo le mancanze.
Quando la pazienza riuscirà a prendere il sopravvento sull'insoddisfazione.
Quando comprendi che cosí come la vita sia trascorsa per te, lo stesso sia avvenuto anche per gli altri.
Che le persone cambiano, cosí come sei cambiato tu.
Che possiamo scegliere di cambiare le cose se non accettiamo che siano loro a cambiare noi, ma può capitare che queste l'abbiano già fatto prima ancora che ce ne si renda conto.
Possiamo cambiare pensando di catapultarci in un nuovo inverno in cui nessun piumone sarà abbastanza caldo per riscaldarci.
Oppure possiamo farlo pensando sempre che fuori sia primavera.

È questa per me la resilienza.
Non soltanto adattarsi in maniera positiva a qualsivoglia evento ci capiti, ma imparare ad accettare anche quello che non possiamo cambiare.
E non è vero che col tempo queste cose ci cambieranno solo perché avremmo imparato a conviverci.
Scompariranno, cosí, all'improvviso, in un giorno di primavera.
Proprio quando avremmo imparato ad annusarne i primi boccioli.
Proprio perché avremmo deciso di farlo quando nessuno se lo sarebbe aspettato.
Quando tutto ci diceva il contrario, ma abbiamo preferito non ascoltare.


sabato 6 febbraio 2016

Siate donne, siate leonesse


Fino a qualche tempo fa mi comportavo come il mio gatto che va a nascondersi per espellere i propri bisogni e poi li sotterra tra i sassolini della lettiera, in attesa che qualcuno vada a scovarli per rimuoverli.

Perché esiste questa categoria di persone. Quelle che fanno come i gatti.
Ed io ne facevo inconsapevolmente parte, fin quando un giorno ho capito che non volevo essere quel tipo di donna.

Quella che si nasconde per timore di palesare i propri bisogni.
Quella che li esprime sotto voce, per timore che facciano troppo rumore.
Quella che li sotterra, non perché li reputi poco importanti, ma in attesa che qualcun altro li scopra e faccia qualcosa per portarli in superficie.

Cosí un giorno ho scoperto che volevo essere quella donna che mette i propri bisogni al primo posto. Che li urla, fino a sgolarsi. Che li sbatte in faccia a chiunque, affinché nessuno possa giustificarsi dicendo di non esserne a conoscenza.

Poi, col tempo, ho scoperto che questo sodalizio che avevo stretto con il mondo esterno non era destinato a durare. 
Perché chi mette i propri bisogni al primo posto diventa egoista nei confronti dell’altro.
Chi li urla rischia di bombardare le orecchie con il suono di quello che diverrà man mano soltanto un’eco.
Chi li manifesta come se non vi fosse altra che quella priorità, assoluta ed immediata, rischia di diventare schiavo delle persone. Della richiesta a loro rivolta di accondiscendenza, in ogni caso.

Cosí ho cercato una via di mezzo, catalogandomi tra le persone-gatto e tra quelle che credono di avere il mondo ai loro piedi. 
Mi sono riservata uno spazio in questa giungla, e ho capito che potevo essere una leonessa.

Le donne-leonesse siglano un patto di forza, tra loro stesse e tra loro ed il mondo.
Un compromesso tra i loro punti deboli e quelli saldi, in cui non vincono sempre i secondi a discapito dei primi.
Perché palesano i propri bisogni mettendoli in cima alla lista, consapevoli però del fatto che lì non potranno restare per sempre e ad ogni condizione. Perché forse questi stessi cambieranno cedendo il passo ad altri. 
Li esprimono con tono maturo di chi sa ciò che vuole.
Non li sotterrano mai, né lasciano che qualcun altro li scopra. 
Lo faranno da sole, perché avranno scelto di non essere schiave.

Ed è allora che ho scoperto che non volevo essere né quella donna, né l’altra.
Che desideravo sentirmi una leonessa, perché così non sarei mai stata schiava dell’accondiscendenza altrui. Perché mi sarei sentita sempre forte abbastanza, così da non aver alcun timore di palesare le mie debolezze.

Perché chiunque scelga di far parte di una simile categoria lo sa. 
Che quando avverti che le debolezze ti portino a fondo come un fiume in piena, questa può rivelarsi invece un’opportunità per sentirsi più forte.
Che il silenzio o le urla ti rendono solo una persona timorosa o una persona egoista.
Che spesso è necessario porsi al centro per guardare il mondo circostante con la giusta equidistanza.
Che in fondo i tuoi bisogni sono importanti, e dovrai esserci tu quando sarà il momento di soddisfarli. 

Che non esiste assenza più incolmabile di quella di non esserci per se stessi.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.

martedì 26 gennaio 2016

Quando per innamorarsi servono gli occhi degli altri

A lui avrei perdonato tutto. Anche il maglione con i richiami natalizi, che da brava veterana, ho deciso a malincuore di lasciare al freddo delle mensole nell’armadio già da una ventina di giorni, subito dopo la fine delle festività natalizie.
Su di lei, invece, ho avuto delle riserve sin da subito. Ma a primo impatto, non le avrei mai perdonato le calze color carne, le ballerine ed il giubbotto di pelle nonostante fuori piovesse e ci fossero zero gradi. In fondo lo sanno tutti, le ballerine sono perfette per le giornate di pioggia.

I due erano in un pub, poggiando i gomiti sul bancone di legno massiccio, e mi erano di fronte quando lui le offriva da bere e le versava la birra in un bicchiere di cristallo.
Sarebbe stato un gesto di gentilezza qualunque, se lui non l’avesse guardata in quel modo. 
Come se dovesse fare qualsiasi cosa gli fosse concesso per meritarla, come se si sentisse non abbastanza. Come se domani fosse troppo tardi, perché lei sarebbe già stata di un altro.

La annusava, come se le sue narici non fossero in grado di percepire nessun altro profumo se non quello della sua pelle. Le toccava il braccialetto che aveva al polso e poi le ha detto qualcosa che le ha fatto accennare un lieve sorriso sul viso, mentre lui ha cominciato a ridere di gusto. 
Poi le ha portato una ciocca di capelli che le si poggiava sulla fronte nascondendole l’occhio sinistro dietro l’orecchio. 
Ad un certo punto però le avrà detto qualcosa che l’ha infastidita. 
Così lei ha accantonato il modo disincantato di lui di essere uomo accondiscendo al suo celato desiderio di sentirsi donna il doppio.
Il suo modo semplice di farsi entrare dentro il suo profumo, nonostante non si riuscisse a percepire altro che quello del malto d’orzo impregnato persino nel bancone di legno massiccio.
La sua risata incontrollata, anche quando lei vi ha posto un freno.
Il suo desiderio di volerla guardare dritto negli occhi scostandole i capelli che le coprivano il viso.

Cosí si è irritata. Il suo corpo si è irrigidito, mentre sorseggiava la birra come fosse un sistema per scaricare l’ansia. Immagino che lei sperasse che continuasse tutto come stava andando sino a quel momento. Ma invece lui è tornato al suo posto, sedendosi su di uno sgabello libero a qualche centimetro in più di distanza.

Poi li ho persi di vista, ma ho cercato di immaginare un finale che fosse verosimile.

L’unica immagine che la mia mente è riuscita a concepire è stata quella di lei che si strappa i capelli per lui, e di lui che, invece, preso dalla disillusione di quanto quella donna audace abbastanza da poter indossare un paio di ballerine in una giornata di pioggia non fosse poi così speciale, l’aveva scaricata.

Perché in fondo noi donne siamo fatte un po’ tutte così: crediamo di essere speciali, e questa convinzione diventa la più grande delle nostre frustrazioni.
Per questo ci fa credere che dobbiamo dimostrare il nostro essere donne nel tenere tutti alla larga e nell’imporre sempre le nostre condizioni. E spesso ci rende anche cieche.


Perché magari avessimo gli occhi degli altri. Saremmo in grado di innamorarci più spesso della persona giusta.


Antonia Di Lorenzo - autrice del romanzo Quando torni? disponibile in versione cartacea ed ebook su Amazon, ITunes, Kobo, Scribd, Smashwords, Barnes&Noble e Lulu.